È cosa nota che il giovane Mozart, nei suoi viaggi in lungo e in largo per l’Europa al seguito del padre Leopold – quando era trattato come un ragazzo prodigio – passò anche per l’Italia. Ci venne tre volte tra i tredici e i diciassette anni e sempre lasciò dietro di sé un scia di composizioni per le varie corti, commissioni prestigiose con le quali sperava di ottenere un posto come maestro di cappella.
Sappiamo che il progetto non si realizzò del tutto: se tali viaggi furono importantissimi per la crescita artistica del compositore, dal punto di vista professionale non ebbero l’esito sperato, e le aspirazioni del giovane Wolfgang e di Leopold vennero frustrate da rifiuti più o meno motivati. Oggi tali composizioni ci restano per illuminare la formazione di uno dei più grandi compositori di tutti i tempi: è questo il pensiero con cui sono state approcciate da parte dell’Orchestra Ildebrando Pizzetti, realtà formatasi da pochi anni che ha fatto di Mozart una stella polare del suo repertorio. Saranno prossimamente in tournée per le varie province lombarde a illustrare le composizioni milanesi di colui che diventerà il Genio di Salisburgo. Enrico Saverio Pagano è il giovane direttore (classe 1995), fondatore dell’orchestra e ideatore del progetto sostenuto dalla Fondazione Antonio Carlo Monzino.
Hai fondato un’orchestra nel 2014, avevi appena diciannove anni: soprattutto considerando i tempi difficili anche per orchestre ben più affermate, come ti è venuta in mente una “pazzia” del genere?
In realtà all’epoca non pensavamo a questo: eravamo solo un gruppo di amici e volevamo suonare. Frequentavamo tutti il Conservatorio Puccini di Gallarate, all’inizio suonavamo in quartetto, poi io mi sono dedicato alla direzione. È capitato che un giorno per un evento in città l’assessorato alla cultura chiedesse al direttore se ci fosse la disponibilità di un’orchestra e noi, intercettato il discorso ci siamo proposti; allora non esisteva (e tutt’ora non esiste) niente di simile alla nostra orchestra in tutta la provincia.
Abbiamo suonato Mozart come battesimo ed è andata bene, ci è piaciuto e quindi abbiamo deciso di andare avanti. Passo dopo passo ci siamo scontrati con varie difficoltà di cui prima non avevamo idea. Solo in seguito abbiamo capito quanto fosse difficile in Italia fondare un’orchestra: creare un’associazione culturale, avere a che fare con la burocrazia, trovare i fondi, le tasse, la previdenza sociale, le agibilità per suonare in teatro. Ci siamo un po’ improvvisati. Adesso per fortuna abbiamo anche una manager che ci aiuta in queste questioni, all’inizio è stato abbastanza scioccante.
Siete molto giovani, quasi tutti alla prima esperienza. Avete un modello a cui ispirarvi?
All’inizio era veramente quasi una scuola per tutti noi, infatti anche il cachet che chiedevamo era notevolmente più basso di quello attuale. Ancora oggi abbiamo molti neodiplomati, provenienti spesso dall’Accademia del Teatro alla Scala che fornisce loro una base orchestrale ragguardevole. In questi anni ho imparato tantissimo anche io dai miei orchestrali e da tutti i concerti che abbiamo fatto. Tutti insieme ci siamo dati un’impronta molto chiara: un’orchestra da camera dedicata principalmente al Settecento e al repertorio moderno e contemporaneo sul modello dell’Academy of St. Martin in the Fields di Neville Marriner. È una realtà che in Italia non esiste veramente, ma molto diffusa all’estero.
C’è un direttore in particolare a cui ti rifai nello stile di conduzione?
I miei modelli sono cambiati molto nel corso della mia formazione e ultimamente, per quanto riguarda il gesto, mi sto allontanando sempre di più dall’idea dell’atto come bellezza in sé e mi sto sempre più avvicinando a un gesto che sia funzionale a quello che si vuole ottenere da parte dell’orchestra. La stima nei confronti di Karajan all’inizio per me era immensa per il suono e per la bellezza gestuale. Poi per quanto riguarda l’interpretazione e soprattutto il repertorio a cui mi sto dedicando adesso sono molto lontano da lui. Ultimamente mi sono avvicinato molto agli inglesi: Marriner, Gardiner, Mackerras.
Come affrontate due repertori così distanti, non solo cronologicamente?
Io penso che i due mondi siano piuttosto connessi: tanti interpreti – e mi riferisco ancora soprattutto a fuori dai nostri confini – si dedicano a entrambi i settori. Penso allo stesso Marriner: grande interprete mozartiano, grande interprete di Stravinskij perché con l’Academy si dedicavano soltanto a quel tipo di repertorio. E anche Pizzetti non è un nome scelto a caso, perché proprio quella generazione di compositori è stata la prima che in Italia nel Novecento si è dedicata alla riscoperta di tutto un repertorio.
Per quanto riguarda il Settecento cerchiamo di fare un lavoro il più fedele possibile a quella che è la ricerca filologica. Quindi la preparazione delle parti, che facciamo in modo collegiale, è uno degli aspetti più importanti del nostro lavoro: scrivere tutte quante le articolazioni, le arcate per gli strumenti ad arco e a fiato è per me una fase cruciale ed è li che c’è il maggior confronto con gli esecutori. Per il contemporaneo è chiaro che ci dedichiamo in particolare a quei compositori che rifondano la musica su quello che è stato il Settecento: quello sarebbe un po’ il ponte che collega questi due mondi.
Ultimamente però vi state dedicando a un progetto in particolare, Mozart a Milano. Cosa puoi dirci al riguardo?
Penso che ogni concerto debba raccontare una storia: noi adesso raccontiamo quella del giovane Mozart che è passato a Milano tre volte (anzi quattro, contando anche il viaggio di ritorno da Napoli) tra 1769 e 1773. Abbiamo raccolto diverse sinfonie, tre esempi di musica vocale, poi l’aria dell’Ascanio in Alba e un brano da concerto, Se tutti i mali miei, scritti nei soggiorni milanesi. E abbiamo confezionato un programma esclusivamente giovanile. Sono tutte opere non molto eseguite, quindi sarà un po’ come scoprire un nuovo Mozart e secondo me un’orchestra di giovani può capire un po’ meglio lo spirito che c’è in questa musica rispetto a quando si va più avanti con l’età. Perché comunque era un ragazzino anche il compositore, che scriveva anche per divertirsi. E quindi lo spirito giovanile che c’è in questa musica penso che degli interpreti giovani lo possano rendere bene.
Come è nata l’idea?
Con il sostegno della Fondazione Carlo Antonio Monzino. Il loro apporto è importantissimo per l’Orchestra: siamo stati contattati l’hanno scorso per il Flauto Magico, poi da cosa nasce cosa. A noi dell’orchestra è venuta questa idea di Mozart a Milano, ne ho parlato con Andrea Monzino che l’ha accolta favorevolmente e abbiamo deciso di presentarci al bando SIAE Sillumina per i giovani e l’abbiamo vinto.
Quale pensi che sia la composizione tra queste “milanesi” che meglio anticipa il Mozart che verrà?
Secondo me, partendo dalle sinfonie, la più matura è la Sinfonia in fa maggiore K112, in cui dal punto di vista sia formale che armonico inizia a sperimentare un po’ di più. Però nella Sinfonia in sol maggiore K74 c’è quello slancio vitale che poi caratterizzerà tutta quanta la sua produzione. L’Exultate jubilate è il capolavoro del periodo, uno dei mottetti più conosciuti all’interno di tutta la sua produzione sacra: è uno di quegli esempi mozartiani dove riesce benissimo a combinare il virtuosismo vocale con la bellezza, con l’aspetto più musicale.
La solista sarà Carlotta Colombo, cosa ci puoi dire di lei?
Con lei ho un rapporto di amicizia da diversi anni: abbiamo fatto il primo concerto insieme nel 2016, una messa di Haydn. Ha una voce molto particolare e sono sicuro che ne sentiremo parlare tanto in futuro. Quello che mi piace nel lavorare con lei è che, oltre ad avere una voce veramente meravigliosa, è una musicista di una profondità ed una conoscenza della musica sconfinata: è laureata in filosofia e ha studiato pianoforte. Ci si può confrontare sempre in maniera molto produttiva. Invito tutti ad ascoltarla in Mozart perché non capita spesso, di solito si ha l’opportunità di poterla sentire nel repertorio barocco.
Mozart ha viaggiato molto: una volta si veniva in Italia, adesso forse dall’Italia si va all’estero. Anche tu hai studiato negli Stati Uniti. È una cosa importante per la formazione professionale di un musicista?
Sì. La cosa più interessante della mia esperienza americana è stata quella di vedere un altro approccio alla musica e l’ho notato soprattutto nell’interpretazione musicale. Nel senso: in Italia motiviamo le nostre scelte per quello che abbiamo studiato e non per quello che sentiamo. Invece ho notato in America un approccio totalmente opposto al nostro, molto più istintivo. E questo ti porta a volte a fare degli errori madornali perché comunque è fondamentale conoscere lo stile di un brano. Però dimenticarsene qualche volta è altrettanto fondamentale: la musica non è fatta soltanto della sua struttura e della sua grammatica. Quindi penso sia importante confrontarsi, così come sia importante studiare con diversi maestri perché ti fa crescere, ti da una visione diversa. Però poi si vorrebbe ritornare…
Al proposito vorrei aggiungere un appello ai direttori artistici: non lasciateci andare via dall’Italia. Io, così come tanti orchestrali, abbiamo ricevuto diverse offerte per andare all’estero. Finora le stiamo rifiutando, ma fino a quando potremo farlo? Quello che noi vorremmo fare è creare qualcosa di diverso, di bello nel nostro Paese.