#Reviews Al Macerata Opera Festival il Don Giovanni di Livermore Lanzillotta e Olivieri è audace e spericolato 

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Dentro, attorno e sopra un taxi giallo. Gran parte della vicenda avviene lì. E che manovre spericolate! A turno, i vari cantanti sgommano per andare e tornare dal parcheggio, a pochi metri sul lato del palcoscenico. Con uno sforzo straordinario, il Macerata Opera Festival ha ripreso vita  allo Sferisterio con una nuova produzione di Don Giovanni. L’audace progetto scenico, in coproduzione con il Festival Les Chorégies d’Orange, è firmato da Davide Livermore. Nessun impianto scenico, automobili a parte, ma le attente luci diAntonio Castro, e le imponenti proiezioni che coinvolgono l’immenso muro di fondo, grazie al videomaker D-Wok. È un’immanente idea di morte a ispirare la lettura di Livermore, fin dall’iniziale duello fra Commendatore e Don Giovanni, ovviamente a colpi di revolver in omaggio al distanziamento. Duello al quale il Commendatore si presenta, circondato da guardie del corpo come ogni boss che si rispetti, a bordo di un suv nero, contrapposto al taxi giallo.

L’idea del regista, però, è di far soccombere entrambi i personaggi. Sicché il cadavere di Don Giovanni rimane in scena, ovviamente in controfigura, e periodicamente tormenta il protagonista, riaffiorando alla sua coscienza lungo il flash-back che sorregge l’intero sviluppo successivo. Ben giustificato il senso di morte che Livermore vede nell’opera, nella quale Don Giovanni corre a fronte alta, eroe negativo ma sempre eroe, verso l’epilogo. E che promana dall’ossessiva sua pulsione per l’altro sesso, dai ripetuti approcci del personaggio, immancabilmente frustrati e inappagati. Ecco quindi che la festa contadina, più avanti, diventerà un’orgia angosciante, e così anche il banchetto conclusivo. Indovinata l’idea fondamentale, il limite della regia è però quello di volerla riempire di una serie di trovate, che non sono un granché. E non è la prima volta, in Livermore.

Decisiva, nella riuscita dell’allestimento, la mano sicura di Francesco Lanzillotta, sul podio dell’Orchestra Filarmonica Marchigiana e del Coro lirico marchigiano “Vincenzo Bellini”, preparato da Martino Faggiani. Le regole di distanziamento, in buca e in scena, hanno complicato le cose, cominciando dalla forzata rinuncia ad alcuni violini primi, da quattordici a dieci, il che all’aperto non è proprio il massimo. Ma Lanzillotta, guidato dal suo gusto consapevole e misurato, ha saputo aver ragione delle difficoltà logistiche. E ha tratteggiato un suono ben calibrato e rifinito, governando la partitura in un articolato fraseggio, che ha felicemente sostenuto il canto nel complicato incedere del movimento registico.

Cast giovane, e di qualità omogenea su un livello più che buono. Nel ruolo eponimo, si fa onore Mattia Olivieri: presenza scenica agile, giovanile, ma soprattutto fraseggio appropriato che poggia su una vocalità sempre a proprio agio. Un Don Giovanni licenzioso, incisivo nel canto dei momenti topici, che tuttavia si tiene lontano dalle tinte demoniache di altre tradizioni. E la sua inestinguibile ansia di conquista non nasconde il fondo amaro che Olivieri infonde al personaggio, nella scia del senso di morte che sottende il disegno di Livermore. Suo riuscito partner, nei panni di Leporello, è Tommaso Barea, che alla voce calda e rotonda sa associare un accento impudente, mai triviale tuttavia, che coniuga con efficacia la sfacciataggine del servo con un’interpretazione musicale ben calzante. Giovanni Sala ha impersonato Don Ottavio, e in lui si è potuta cogliere una limpida, interessante linea di canto, perché finalmente aliena da svenevoli leziosità, e anzi innervata d’inconsueti accenti volitivi.

Molto apprezzata nei panni di Donna Anna la prova di Karen Gardeazabal, la quale appare non soltanto persuasiva e determinata nella recitazione, ma soprattutto esibisce una vocalità avvincente nei colori, nella consapevolezza musicale, nella calibrata intensità delle passioni. Valentina Mastrangelo ha esordito egregiamente nel ruolo di Donna Elvira, conferendole una dimensione vocale palpitante di femminilità e accenti diversi, sensuali o tesi di volta in volta, nel correre di una timbrica sempre fulgida e omogenea. Altrettanto encomiabile è apparsa la Zerlina di Lavinia Bini, ingenua ma non stucchevole, anzi molto vivace per la vocalità fresca e sensuale di cui ha dotato il personaggio, in felice pendant con il Masetto di Davide Giangregorio, villico genuino e ben sveglio, ma consapevole della sua condizione di sottoposto. La figura del Commendatore era affidata alla resa esperta di Antonio Di Matteo che, nei panni insueti del capo ‘ndrangheta voluti dalla regia, non ha fatto mancare il giusto peso e l’autorevolezza vocale che occorrono.

Al Don Giovanniè seguito un allestimento del Trovatoreche, sia pure in forma di oratorio per via delle contingenti difficoltà, è ben riuscito, incontrando aperto successo. Sul podio Vincenzo Milletarì, giovane direttore che ha saputo costruire un racconto musicale decisamente pregnante. Stacchi di tempo scelti con piglio incisivo, ma non precipitoso. Colori luminosi e appassionati in un suono sempre equilibrato. Magari il gesto di questa trentenne bacchetta non è ben articolato, ma il risultato musicale è apprezzabile, e crea un’atmosfera espressiva di convincente eloquenza. Anche qui una compagnia di canto ben assortita. Emerge anzitutto Veronica Simeoni, che risolve con intelligenza la parte di Azucena; lontana da effetti spesso discutibili, al contrario la Simeoni trasmette con raffinata misura tutti i connotati dolenti del personaggio, senza debordare. Leonora è affidata a Roberta Mantegna, in un’interpretazione positiva sì, ma anche piuttosto uniforme nell’accento e nel colore, che lascia qualche interrogativo sulla sua scelta di questo ruolo. Il tenore Luciano Ganci affronta con piglio disinvolto la parte di Manrico, conduce con bel gusto il fraseggio, è limpido nel canto come nel recitativo, e supera le note asperità con comprensibile ma controllata tensione. Un passaggio mal riuscito non deve offuscare la prova del baritono Massimo Cavalletti,che con vocalità piena e timbrata disegna a tutto tondo un Conte di Luna angustiato nell’incontrollabile passione e nella sua inadeguatezza di fronte al corso della vicenda. Davide Giangregorio si disimpegna molto bene come Ferrando, e non soltanto nell’aria iniziale, scandita con bella gamma espressiva. Lodevoli i comprimari: Didier Pieri, Ruiz, Fiammetta Tofoni, Ines, Massimiliano Mandozzi, un vecchio zingaro.

 

Francesco Arturo Saponaro

 

photo © Tabocchini Zanconi

 

 

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