Nonostante il nome d’eccezione ospite alle Serate Musicali del Conservatorio di Milano, il pubblico presente non è molto numeroso; sarà stata la complessità tutta particolare del programma scelto, oppure la leggera pioggia che ha indotto i milanesi a restare a casa. Fatto sta che la platea della Sala Verdi non è affollata come ci si aspetterebbe e dispiace constatare uno scarso interesse delle solitamente ricettive orecchie meneghine.
Peccato, perché si è trattato di un’ottima occasione per vedere all’opera uno dei pianisti che nei decenni scorsi hanno catalizzato l’attenzione degli auditorium di mezzo mondo. Francesco Libetta (classe 1968), infatti, è un interprete dalla carriera particolare: dopo un inizio fulminante, ad un sicuro successo internazionale nelle più prestigiose istituzioni concertistiche ha preferito la tranquillità della sua Lecce, da dove si dedica ai più svariati progetti tra insegnamento nel locale Conservatorio, composizione, musica per balletti e riscoperta di compositori dimenticati. Nel 2003 il New York Times lo definì «aristocratico poeta della tastiera»; oggi, stupisce che il suo nome non sia più tanto spesso accostato ai massimi interpreti del repertorio pianistico.
In questo concerto – più simile ad una maratona, che ad un concerto propriamente detto – Libetta si cimenta nella sonorizzazione di due pietre miliari della cinematografia italiana. Si tratta di due pellicole agli antipodi per stile, tematiche e mezzi di produzione e conseguenti diversissime partiture musicali; da cui, per il pianista non dev’essere affatto semplice astrarsi per accompagnare al meglio le sensazioni suscitate dall’una e dall’altra opera.
Tratto dall’omonimo romanzo di Grazie Deledda, Cenere (di Febo Mari, 1916) vede l’unica partecipazione cinematografica di Eleonora Duse come protagonista nel ruolo della sfortunata Rosalia Derios, giovane madre costretta ad abbandonare il figlio nato da una relazione clandestina per assicurargli maggior fortuna. Un po’ per dare più spazio sulla pellicola alla grande attrice (nel romanzo il ruolo di Rosalia è molto più limitato: scompare dopo i primi due capitoli e riappare negli ultimi due), un po’ per evidenziare il drammatico rapporto tra i due protagonisti, il film appare tutto sbilanciato sul finale dove viene inscenato il momento dell’incontro tra madre e figlio ormai adulto (interpretato dal regista Febo Mari), senza risparmiarsi, qua e là, in inquadrature di taglio quasi documentaristico, indugiando sulla vita e i costumi dei contadini della Sardegna.
È proprio in questo genere di immagini che l’accompagnamento pianistico di Libetta dà il meglio di sé, sobriamente accompagnando questi scorci rurali per poi intensificarsi parimenti alla situazione emotiva: in un film in cui non ci sono che pochi sprazzi di gioia (forse solo le primissime immagini) prevalgono sempre i toni gravi e medi della tastiera, come a sottolineare la tragicità della situazione. E le musiche da lui scelte assecondano queste tonalità scure, oltre a rispecchiare il suo interesse ai “Carneadi” del primonovecento: brani di Alberto Franchetti, Antonio Scontrino, Vittorio Gnecchi si affiancano ai più noti Pizzetti, Mascagni, Tosti, Debussy. Sono tutti compositori che gravitavano attorno alla cerchia di D’Annunzio, vero e proprio collante della serata.
Proprio il secondo film, Rapsodia Satanica (di Nino Oxilia, 1917), è fortemente debitore della lezione dannunziana (non a caso il regista fu anche poeta molto vicino al Vate): tra sceneggiatura che riprende il tema faustiano del patto con il diavolo, simbolismo decadentista e scenografie liberty e art-nouveau, è pressoché all’estremo opposto rispetto al crudo realismo verista di Cenere. La trascrizione della partitura originale di Mascagni – talmente precisa che ci si affidò ad essa per il restauro della pellicola – mette in luce elementi leitmotivici che Libetta suona quasi a memoria. Infatti, la scomoda posizione del pianoforte, perpendicolare rispetto allo schermo, lo costringe a suonare praticamente senza guardare gli accadimenti filmici, solo di tanto in tanto ruotando lo sguardo di novanta gradi per controllare il giusto sincrono.
Nell’intermezzo tra un film e l’altro ci sono i grandi cavalli di battaglia del pianista: la Polonnaise op. 53 di Chopin, la Kammer-Fantasie über Bizets Carmen di Busoni, la trascrizione di Liszt dell’aria wagneriana O, du mein holder Abendstern, i Vingt Ans dalla Grande Sonata op. 33 Les Quatre Âges di Alkan, e la Sonata n. 14 in Do diesis minore di Beethoven. E se l’unica “pecca” è il metronomo scelto, forse un po’ troppo veloce, questa in realtà non fa che mettere in risalto ancora di più il suo fulgido virtuosismo e il perfetto controllo delle sue mani sulla tastiera come forse pochissimi altri al mondo.
Un tour de force, come detto, non solo per la lunghezza del concerto e per l’inossidabile resistenza del Nostro (tra film e intermezzo ha suonato quasi ininterrottamente per più di due ore), ma anche per la gran varietà di stili affrontati. Alla fine c’è spazio anche per un bis: La cura di Franco Battiato in una trascrizione pianistica quasi einaudiana, giusto per il gusto di cimentarsi con un altro repertorio ancora, quello popular contemporaneo. Applausi a scena aperta.
Immagine di copertina: Eleonora Duse