Der ferne Klang di Franz Schreker rivive al Theater Lübeck

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Quando Franz Schreker compose la sua seconda opera “Der ferne Klang” (tra il 1905 e il 1910), si trovava, come egli stesso scrive, in mezzo a una tempesta di sentimenti e desideri: «Desiderio di raggiungere un ideale artistico, fama, i piaceri della vita. Donne, amore! E volevo creare, plasmare tutto ciò in costruzioni sonore». Non a caso molti aspetti della trama hanno tratti autobiografici, a partire dal protagonista Fritz (già simile nel nome), compositore alla disperata ricerca del “suono lontano”, ideale estetico irraggiungibile che lo porta alla rovina nella vita privata e professionale.

Dalla prima di “Der ferne Klang” nel 1912 a Francoforte fino agli anni ’30, Schreker rappresentava uno dei compositori più in voga nella Germania e Austria tra le due guerre. Con la salita al potere del regime nazista venne però allontanato e appartato dalla vita musicale, per poi essere citato nella mostra “Entartete Kunst” nel 1938 come compositore che «metteva in musica ogni tipo di aberrazione sessuale-patologica». Al contrario di molti artisti discriminati e segregati dai nazisti, la rinascita delle opere di Schreker risulta però eccezionalmente e incomprensibilmente lenta. Soltanto negli ultimi decenni alcuni dei suoi lavori hanno ripreso vita nei teatri e nelle sale da concerto, dimostrando le caratteristiche particolari di un compositore tra la fin de siècle e l’atonalità, tra un tardo romanticismo e un modernismo rivoluzionario quale Schreker.

Una serata che gli ha reso onore è stata senza dubbio quella del 3 febbraio 2018, quando la regia di Jochen Biganzoli, le scene di Wolf Gutjahr, i costumi di Katharina Weissenborn ma soprattutto il direttore Dirk Kaftan assieme all’orchestra filarmonica di Lübeck e ai solisti Cornelia Ptassek (Grete), Zoltán Nyáry (Fritz), Wioletta Hebrowska, Taras Konoshchenko, Johan Hyunbong Choi, etc., hanno riempito il teatro di Lubecca con i suoni eterogenei di questo “Künstlerdrama”.

A guardare la partitura che Schreker scrisse a soli 27 anni per il proprio libretto, carica di indicazioni, sovrapposizioni di musiche diverse, equilibri fragili tra un’orchestra potente e l’ensemble di solisti, si comprende la complessità di quest’opera e la difficoltà di esprimere l’ampia gamma di sfumature che essa richiede. Difficoltà che nel caso del Theater Lübeck è stata affrontata con successo da Dirk Kaftan e dai solisti, protagonisti di una regia caratterizzata da spostamenti, colpi di scena e impostazioni inusuali.

Già nel primo atto, ambientato in una scenografia ispirata evidentemente ai lavori di Bert Neumann (una casa-container provvisoria, munita di videocamere che trasmettono in diretta da due angolazioni al suo interno), si passa dall’ambiente opprimente della famiglia di Grete a un bosco nel sogno (o sogno nel bosco) in cui essa fugge. Spingendo letteralmente via la casa, la protagonista femminile si ritrova circondata da tende luccicanti, cornice per le visioni che riflettono i suoi desideri (molti passaggi dell’opera si possono infatti leggere in chiave psicoanalitica). Improvvisamente, alla fine del “sogno”, le porte della sala del teatro lubecchese vengono aperte, e personaggi in abito e vestiti eleganti, nascosti dietro a occhiali da sole scuri, invitano il pubblico a sorseggiare un bicchiere di prosecco ed esplorare gli agi dell’atrio del teatro. Qui un coro femminile, un cantante con una pianista, sguardi e accenni espliciti, testi di Otto Weininger e Karl Kraus declamati al microfono e un ensemble musicale “zingaro” sul palcoscenico principale circondano il pubblico che si ritrova in prima persona nella “Casa di maschere”, bordello in cui si svolge il secondo atto. «Le scene seguenti devono svolgersi, se più o meno comprensibilmente non importa, in modo vivace e animato […] Lo spettatore deve avere la sensazione di essere egli stesso in mezzo a questa azione, che fa da ouverture misteriosa e astrusa agli avvenimenti che seguiranno». Biganzoli prende alla lettera l’indicazione sulla partitura di Schreker e, coinvolgendo attivamente il pubblico, riesce a ricreare il collage musicale usato per comporre l’ouverture del secondo atto in un’esperienza di teatro totale. Senza interruzione alcuna, il secondo atto inizia impercettibilmente con la sovrapposizione di cantanti ancora in platea, musicisti sulla scena, suoni provenienti da lontano e l’apparizione di Greta, ora trasformata nella “stella” dello stabilimento, in una “gabbia” di vetro che cala dall’alto.

 

 

Dopo questo atto concentrato su Greta e i suoi corteggiatori, il terzo atto ci riporta alla scena iniziale. Quella che prima era la casa di Grete si trasforma nel bar in cui lei si rifugia dopo aver sentito la nuova opera di Fritz a teatro. Davanti al palcoscenico la buca dell’orchestra è stata chiusa: i musicisti si scorgono sul palco dietro alla scenografia. Questo effetto di “teatro nel teatro”, di “opera nell’opera”, che mette in scena in modo efficace la trama del libretto, diventa ancora più evidente nel “Nachtstück” -intermezzo-, in cui l’intera orchestra (possibilmente interprete allo stesso tempo di musica diegetica ed extradiegetica) avanza lentamente dal fondo del palco verso il pubblico. Il suono prima lontano si avvicina e diventa protagonista di un finale in stile concertante, nel quale Fritz ammette il proprio fallimento davanti a Grete. Dalla platea sembra di trovarsi ad un concerto per due solisti e orchestra. Il duetto finale, dal contenuto catartico, è presentato con una tale sobrietà e spazio tra i due solisti, che rendono il sentimento di fallimento ancora più incisivo. Le luci della sala si accendono, la vita di Fritz è finita, “il terzo atto è fallito”, il suono svanito lontano.

Il pubblico, reduce di una serata intensa e lunga, applaude entusiasta specialmente l’orchestra e i protagonisti. Cornelia Ptassek, nonostante alcuni momenti di rigidità nella recitazione, si dimostra decisamente all’altezza di un ruolo pieno di metamorfosi quale quello di Grete. Zoltán Nyáry interpreta quasi in un modo troppo “distante” ma verosimile un Fritz travagliato dal proprio ideale artistico. Wioletta Hebrowska incanta con la sua versatilità e il suo carattere nei diversi personaggi che interpreta (una donna matura, una spagnola, la cameriera, una ragazza), aspetto che vale anche per Johan Hyunbong Choi (un commediante, il conte, un attore). Ma i maggiori applausi vanno a Dirk Kaftan e all’orchestra, che virtuosamente riportano alla vita la musica complessa e sfaccettata di Franz Schreker, degna di essere interpretata.

Foto di Steffen Gottschling

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