Venezia, la laguna, un antico manicomio: è lo sfondo del nuovo lavoro di Michele Gazich. Un disco che dà voce a vittime e carnefici
Temuto come grido, atteso come canto
Michele Gazich
FonoBisanzio 1 cd (Ird) 2018
Ci sono persone vere dietro queste storie, che avevano il “difetto” di essere ebree e folli (o così magari parevano). Alcune di queste nell’ottobre del 1944 furono “ritirate” (così si legge sui rapporti), cioè deportate dal luogo di detenzione verso i campi di sterminio nazisti; con la compiacenza delle autorità fasciste e dei medici che li avevano in cura. Luogo dell’accaduto è l’isola di San Servolo, una delle più prossime al centro storico di Venezia, a pochi minuti di traghetto da piazza San Marco e dal Lido.
Da isola della vergogna a simbolo
San Servolo è stata dal 1797 al 1978 il manicomio della città, ma anche, dopo la promulgazione delle leggi razziali, il luogo dove “parcheggiare” chi non si riteneva “idoneo alla purezza della stirpe italica”. Ora questa isola ospita la Fondazione Franca e Franco Basaglia, varie strutture universitarie (nazionali e internazionali), il museo e l’archivio sterminato, con migliaia di cartelle cliniche, dell’ex-manicomio. Ed è proprio in questo luogo che è nato Temuto come grido, atteso come canto.
«Ho scritto queste canzoni nell’ottobre 2017», racconta Michele Gazich. «Quel mese ho vissuto, ospite del progetto Waterlines – residenze artistiche e letterarie, sull’isola di San Servolo, proprio di fronte a Venezia. […] Ogni giorno ho trascorso la mattinata nell’archivio dell’ex-manicomio e il pomeriggio e la notte a scrivere. […] Ho guardato i loro visi, ho riletto le loro storie nelle cartelle cliniche, nel tentativo di restituire loro qualcosa, che non sarà comunque mai abbastanza, e di ridare a loro la parola».
Il disco di Michele Gazich
Tra chi ha potuto ancora “parlare” attraverso i brani del disco ci sono vittime e carnefici; Gazich ha “nascosto” (ma solo per rispetto, visto che le cartelle cliniche ormai sono di consultazione pubblica) i nomi e i volti. A darci però visione della loro condizione ci aiutano le splendide riproduzioni delle xilografie di Alice Falchetti, realizzate nel solco dell’espressionismo tedesco, e le note presenti nel libretto.
Troppo breve è questo spazio per poter dar conto della grandezza e importanza di questo lavoro, dove oltre alle persone ci si può trovare Venezia (luogo magico e misterioso, con il suo dialetto e l’antica lingua ebraica), il senso di follia (e di quel sottile confine che la separa dalla normalità), Luigi Nono ed Edmondo Bertelli.
Cuori fuorilegge
Cuori fuorilegge
Luca Rovini & Compañeros
Sosumi Records 1 cd 2018
Sulla custodia della chitarra si legge: Pisa Texas. Non importa se sia vero, è fondamentale capire che Luca Rovini ha saputo portare a sé un genere che è diventato patrimonio italico: il folk-rock. Cantato in italiano, questo disco dimostra pienamente la sua genuinità dell’approcio alla scrittura. Accanto a lui troviamo Peter Bonta, Flàco Siegals, Garry A. Crockett e una serie di grandi musicisti nostrani.
Music for The Native Americans
Robbie Robertson & The Red Road Ensemble
Capitol 1 cd 1994
Nelle sue vene scorre il sangue americano delle popolazioni che hanno abitato quelle terre prima della mattanza post-Colombo. In verità Robbie Robertson è un “mezzosangue” (termine orribile in voga nei film western fino agli anni’80); ha padre canadese e madre indiana Mohawk.
Iniziò ad avvicinarsi presto alla musica, durante gli anni di vacanza nella Six Nations Reserve in Ontario; e quelle esperienze musicali lo segnarono profondamente. Robertson è sicuramente più noto come componente del gruppo The Band; compagni di palco di Bob Dylan per molto tempo, e una degli ensemble più importanti della musica rock.
Il disco delle radici
Quando si stancò dell’avventura con il gruppo si riavvicinò alle sonorità da cui proveniva; così trovò il coraggio di concepire un disco “delle radici”.
«Ho inseguito per anni un sogno: quello di registrare un album di musica dei nativi d’America. Ma non avevo nessuna intenzione di farlo solo per togliermi uno sfizio; sentivo l’esigenza di realizzare un qualcosa che fosse di grande impatto emotivo ma, al tempo stesso, rispettoso della cultura indiana».
E il grande impatto c’è. Così brani etnici (come Mahk Jchi, Cherokee Morning Song e Ancestor Song) trovano senso accostati ad altri influenzati dal rock (Ghost Dance, Golden Feather, Skinwalker), creando un’ottima sintesi fra rigore etnomusicologico e facilità d’ascolto.
di Riccardo Santangelo