di Anna Ficarella
Meticolosa cura dei dettagli e profonda coerenza nella visione d’insieme hanno caratterizzato la splendida direzione d’orchestra di Vladimir Jurowski alla guida dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia nel concerto di sabato 1 aprile all’Auditorium Parco della Musica (terza replica dopo il 30 e 31 marzo 2017). Il direttore russo ha mostrato tutto il suo enorme talento e la sua maturità di interprete alla guida di una compagine orchestrale che ha dato un’ottima prova di sé, collaborando in maniera appassionata e convinta con Jurowski. Uno splendido programma, fascinoso quanto ostico, dedicato a Zemlinsky, con la Sinfonietta op. 23 (1934) e a Mahler, con il Titano, la versione della Prima Sinfonia in 5 movimenti (di cui è in preparazione una nuova edizione critica curata da Stephen Hefling a partire dalle ricerche di Reinhold Kubik), comprendente Blumine, il secondo tempo poi espunto dal compositore dopo le critiche ricevute nelle esecuzioni di Amburgo nel 1893 e di Weimar nel 1894. Come è noto, Blumine fu riscoperto da Donald Mitchell nel 1966 ed ebbe la sua première novecentesca l'anno dopo diretto da Benjamin Britten: da allora il movimento è stato eseguito da celebri interpreti mahleriani, spesso da solo.
Un viaggio musicale, dunque, in due momenti chiave della vita culturale viennese, la ‘fin de siécle’ carica dei presagi che porteranno alla distruzione di quel mondo con la prima guerra mondiale e i cupi anni Trenta, con la catastrofe del Nazismo. Al tema sono state dedicate due giornate di studi intitolate Vienna 1884-1934, organizzate dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in occasione dell’evento concertistico.
La serata si è aperta con la Sinfonietta op. 23 di Zemlinski, ultima opera scritta dal compositore nel 1934 prima di emigrare negli Stati Uniti. Jurowski è sembrato totalmente a suo agio con la scrittura ‘labirintica’ di una composizione complessa, la cui denominazione in diminutio non deve trarre in inganno: grande varietà tematica a partire da materiali anche esili, ritmi pulsanti e asciutti, varietà di toni e atmosfere, compresa l’eco di un Laendler nel primo movimento. Il direttore russo ha reso con chiarezza esemplare le connessioni tematiche tra le varie sezioni del primo movimento (Sehr lebhaft. Presto), valorizzate da un grande controllo del ritmo e dell’articolazione metrica. Di notevole suggestione il secondo movimento, Poco Adagio in forma di Ballade in cui la sonorità più autentica di Zemlinsky è emersa nell’attenzione estrema per gli impasti strumentali tra i legni (in particolare l’oboe) e gli archi (opportunamente divisi in posizione antifonale i violini) e nella cura di un fraseggio morbido, dal sapore mahleriano presente anche nelle indicazioni agogiche (“nicht schleppend”, senza trascinare). Trasparenza e precisione nel Rondo conclusivo, con attacchi netti e piani sonori perfettamente graduati.
Tutte le qualità dimostrate nella prima parte del concerto hanno trovato compimento nell’esecuzione del Titano di Mahler, di cui è stata data un’interpretazione di grande lirismo eppure priva di enfasi retorica, rispondente in pieno al carattere di ‘poema sinfonico’ della prima versione dell’opera. Nelle revisioni successive al 1894 la partitura mahleriana diventa più asciutta ed essenziale, non solo per l’eliminazione di Blumine e del tanto controverso programma con i riferimenti extra-musicali, ma anche attraverso un’orchestrazione meno coloristica e ridondante, in particolare negli ultimi due movimenti. L’approccio di Jurowski al primo movimento sembra tener conto proprio di quel territorio psicologico e reale cui Mahler attingeva, pur negando poi qualunque valenza a programmi e spiegazioni attorno alle sue musiche. Il Naturlaut iniziale si è presentato come un risveglio indolente e quasi pacato della natura, con la texture orchestrale meravigliosamente chiara e dettagliata senza sacrificarne equilibrio e coesione (nonostante qualche lieve sgranatura all’inizio negli attacchi dei fiati). I richiami delle trombe, poste ‘in sehr weiter Entfernung’ (a grande distanza), risuonavano come echi da un’altra dimensione, a partire dai quali Jurowski ha costruito una climax inesorabile nel fortissimo degli ottoni in un tutti pieno di ardore, eppure privo di qualunque ricerca effettistica fine a se stessa. Le dinamiche graduate con la massima cura e i piani sonori controllatissimi hanno valorizzato la trasparenza dei contrappunti, in cui grande rilievo hanno avuto la leggerezza e setosità degli archi.
Di grande bellezza il tono da Kammermusik di Blumine, con il dialogo fra tromba, oboe, archi, scevro da ogni superficiale sentimentalismo eppure intenso e lirico. Nel terzo movimento in forma di scherzo vigoroso, con la sezione del Trio ‘comodo’ (gemaechlich), ha impressionato il fraseggio ‘viennese’, dallo slancio naturale e affatto lezioso, del walzer, con la metrica dettagliatissima delle voci interne. Un approccio che ha richiamato alla memoria l’eleganza degli accenti boemi di un Kubelik. Nel quarto e quinto movimento più evidenti sono risultate le differenze nella strumentazione con le versioni successive della sinfonia, cui il tono generale meno disperato e più ironicamente lieve dell’interpretazione di Jurowski ha dato valore: l’attacco mesto e solenne del tema di Bruder Jacob affidato a tutti i contrabassi invece che ad uno solo (questione peraltro ancora dibattuta nell’edizioni critiche) risulta meno spettrale e più vicino allo spirito inquietante di una marcia funebre alla maniera di Callot, costruita a partire dall’insistente intervallo di quarta dei timpani, reminiscenza ironica e lugubre allo stesso tempo delle bande dei Dörfer boemi. Allo slancio swing dei legni nel tema klezmer è seguita l’impressionante chiarezza nella resa della complessa scrittura contrappuntistica mahleriana, con l’intreccio simultaneo dei precedenti elementi tematici e stili espressivi. Il movimento finale, stürmisch bewegt è risultato altrettanto coinvolgente, con Jurowski che ha lanciato tutta l’orchestra nella tempesta dei primi minuti. Gli elementi più impressionanti dell’esecuzione, tuttavia, non sono stati lo slancio ritmico e neppure la pienezza controllata dei volumi cui faceva da contraltare la trasparenza del tono da Kammermusik, peraltro esemplari. Ciò che più ha affascinato sono stati il grande lirismo e la capacità di valorizzare gli impasti timbrici mahleriani in qualunque luogo della composizione, sostenuti dalla morbidezza dei lunghi, meravigliosi suoni-pedale che riempivano l’intero spazio orchestrale, come delle fondamenta radicate nelle profondità della terra. Un trionfo per il direttore e l’orchestra.