Accoglienza calorosa per Lucia di Lammermoor, in scena al Comunale di Bologna dal 16 giugno. Sul podio Michele Mariotti che dopo il successo di La voix humaine e Cavalleria rusticana, dirige l’Orchestra del Teatro Comunale in uno dei capolavori immortali dell’opera italiana di primo Ottocento. Il melodramma donizettiano, assente da Bologna dal 2008, è stato scelto da Mariotti per la stagione 2017 con l’intento, subito dichiarato dal maestro, di metterne in luce in modo inedito le nuances timbriche e l’intensa caratterizzazione del personaggi. Il direttore ha focalizzato la sua attenzione sulla raffinatezza degli accompagnamenti orchestrali, sui controcanti, sui giochi allusivi degli strumenti, che, sapientemente dosati e già resi vari da Donizetti, consentono un’affascinante, impeccabile delineazione dei personaggi. A fare di Lucia di Lammermoor un’opera straordinaria non è quindi solo la presenza di tutti i topoi operistici di metà Ottocento tanto attesi dal grande pubblico (il triangolo tenore-baritono-soprano, il grande finale con scena di stupore e groundswell, l’intenso phatos generato da una sottile trama di rimandi musicali), ma anche un’arguta scelta dei timbri vocali e strumentali ed un’attenta gestione del bagaglio di forme drammatiche e di stilemi musicali disponibili.
Gli spettatori hanno recepito un’opera in crescendo. Animati da un entusiasmo del pubblico sempre maggiore, gli applausi sono diventati via via più eloquenti fin dall’aria Regnava nel silenzio e dal duetto finale della I parte, accompagnando l’opera fino alla sua conclusione. Successo per Ardon gli eccessi e per l’ultimo finale che, nonostante l’ambientazione discordante rispetto alle prescrizioni del libretto e le avventate scelte registiche, è stato molto gradito. Utilizzando una metafora astronomica, si potrebbe dire che l’opera si sia schiusa pian piano raggiungendo lo zenit nella celeberrima “scena della pazzia”. Pensata inizialmente da Donizetti con il concorso della glassarmonica, l’incantevole scena della follia di Lucia, certamente la più famosa dell’opera e la meglio riuscita della serata, è stata eseguita nella versione d’autore che prevede il flauto solo in luogo dell’armonica a bicchieri.
Il cast è stato molto apprezzato dal pubblico bolognese. Convincente Markus Werba, che ha curato la sua parte con garbo. Apprezzata anche la performance di Evgenj Stavinsky che, nella parte di Raimondo, ha potuto cantare anche l’aria del I atto della II parte, solitamente tagliata, Ah! Cedi, cedi… Appropriate le parti di Arturo, Alisa e Normanno, rispettivamente Alessandro Luciano, Elena Traversi e Gianluca Floris.
Grande successo, invece, per Stafan Pop, il cantante sicuramente più apprezzato della serata, che ha conferito al suo Edgardo slancio ed intensa espressività ed ha enfatizzato la rotondità e la potenza proprie di una parte pensata e scritta per Gilbert Duprez, noto alla storia come “il padre del do di petto”. Gradita agli spettatori anche la scelta interpretativa di Irina Lungu, che già a novembre era stata al Comunale nella parte di Gilda nel Rigoletto. Il soprano ha scelto di sottolineare le componenti più “drammatiche” della parte vocale di Lucia, privilegiando la sonorità corposa e la ricchezza timbrica, la luminosità veemente del registro acuto, purtroppo non sempre perfettamente impeccabile, all’agilità ed ai passaggi di coloratura. Anche Fanny Tacchinardi Persiani, prima interprete dell’opera, è descritta dalle cronache dell’epoca come un soprano dalla voce corposa, ma al tempo stesso votato alla coloratura, componente quest’ultima, che però Irina Lungu non ha forse curato a sufficienza.
In compenso la sua Lucia sognatrice e tormentata si è accordata benissimo con l’idea del registra, Lorenzo Mariani, che dichiarando di essersi ispirato ad una mesta litografia di Sir J. E. Millais, ha ammesso di vedere nella storia dell’amore impossibile di Edgardo e Lucia «qualcosa di terribile, come di un destino nero e irreversibile». Questa ineluttabile e cupa visione dell’opera è stata coerentemente declinata in una regia patinata di tinte fosche, il cui pathos si è espresso nel contrasto cromatico fra il rosso del sangue, presente fin dall’inizio nel truculento cervo esposto come trofeo e poi costante nell’opera, il grigio della foresta sullo sfondo ed il bianco dei candidi abiti di Lucia. La decisione di porre l’accento sugli aspetti più cruenti della vicenda ha, più di una volta nel corso della serata, assunto un sapore noir, fino alla proposta di alcuni spunti fortemente contestabili. Definirei fuori luogo la violenta aggressione fisica di Lord Enrico ai danni di Lucia, tanto efferata da costringere il morigerato Raimondo a sfoderare un’improbabile pistola, o la morte in scena di un Arturo rantolante sul tavolo apparecchiato per la festa nuziale (lo stesso dove prima giaceva il cervo), fino alla maldestra decisione di far terminare l’opera con una Lucia orribilmente penzolante. Così il dramma donizettiano, che con qualche incertezza aveva presto preso il volo e toccato lo zenit sul finire del I atto, scade qui parecchio di livello. Il pessimo gusto di tali scelte, non ha, tuttavia, impedito all’orchestra guidata da Mariotti, al coro ed ai cantanti di fornire una graditissima interpretazione musicale. Più appropriate le luci di Linus Fellbom e le scene di Maurizio Balò. La messinscena, dominata da un’ampia finestra che dà su una grigia foresta, ora in stasi, ora in movimento, sembra aver colto meglio della regia l’atmosfera malinconica e sepolcrale espressa dal romanzo scottiano The Bride of Lammermoor, fonte dell’opera.