È tra le interpreti chopiniane più apprezzate della nuova generazione pianistica, unica italiana premiata nella storia del Concorso Chopin di Varsavia che le ha tributato il premio “Janina Nawrocka”. Ma Chopin è stato solo uno degli autori in programma del concerto esclusivo di chiusura della seconda edizione di Risonanze, il festival di musica nel bosco che si tiene a Malborghetto-Valbruna, in Friuli Venezia Giulia.
Lei è Leonora Armellini, raffinata pianista ventiquattrenne di Padova con alle spalle, nonostante l’età, una riconosciuta carriera internazionale. D’altronde si sente, e si è sentito, quanto gli insegnamenti di didatti come Laura Palmieri, erede della scuola di Michelangeli, Sergio Perticaroli, Lylia Zilberstein, Marian Mika – e ci fermiamo qui -, abbiano saputo infondere in lei, quell’accuratezza tecnica e profondità interpretativa che la fanno raro diamante tra i giovani pianisti. Un talento naturale coltivato ad arte.
Nella splendida cornice della Val Saisera, Leonora Armellini ha regalato la Fantasia cromatica e Fuga in re minore BWV 903 di Bach nella versione di Busoni, la Sonata n. 28 in la maggiore op. 101 di Beethoven e nella seconda parte, la Ballata n. 4 in fa minore di Chopin e la Sonata n. 2 in re minore op. 14 di Prokofiev. Summe delle composizioni per tastiera, dal Barocco al primo Novecento, dominate da Armellini senza sforzi o ostentazioni, piuttosto dietro a personali riletture distinte dalla cura per i dettagli.
Già in Bach-Busoni si è sentita la tara del suo fraseggio, dalle prime battute alla mirabile fuga, cogliendo le accentuazioni ritmiche con padronanza da rendere quelle polifonie ardite, il riflesso del panorama silvestre che l’ha accolta e beneamata. Questo è il proemio, apprezzatissimo dal numeroso pubblico disteso liberamente sui prati, liberato poi “col più profondo sentimento” – così indica Beethoven all’inizio -, nel canto del primo tempo e guida della Sonata n. 28 del filantropo della musica. Altre atmosfere, non meno profonde ed esistenziali nella libertà dei movimenti successivi: una Marcia in luogo di uno Scherzo, un Adagio che è una pagina meravigliosa di diario e l’Allegro finale, risoluto e slanciato.
Non una piega, e anche se l’acustica non era ideale come potrebbe un teatro, il grancoda in quella valle, appena amplificato, ha vibrato come in un anfiteatro, in un bosco di risonanza, nel silenzio attento degli spettatori in abiti da montagna. Tra gli applausi reiterati e i “brava” ripetuti, è finita la prima parte di concerto.
Poi il secondo atto: Chopin e Prokofiev. La versione di Armellini della Ballata n. 4 ci fa capire le motivazioni per cui la giuria internazionale l’ha insignita al premio Chopin: “Eccezionale musicalità e bellezza del suono”. Forse il secondo aspetto, per i motivi di cui sopra, non si è colto appieno in Val Saisera – per chi ancora non l’ha ascoltata in luoghi deputati – ma la musicalità, quella c’era, indubbiamente. Quel canto magiaro, polacco chopiniano, in questa lirica che ricalca con melodie eteree e costrutti armonici senza pari, i versi del poeta di patria Adam Mickiewicz, si è sentito nell’afflato e nell’impeto della sua interpretazione.
Il finale con le complessità di Prokofiev e la Sonata n. 2 che ha eseguito calcando arditezze tecniche, marcando contrasti e contraddizioni ritmiche, armoniche, espressive, coinvolta in tutti gli ambigui tempi, in particolare nel Vivace in tempo di tarantella, dando prova ancora della sua alta preparazione. Motivo di altri consensi per la classe pianistica di Leonora Armellini, per cui il pubblico da tempo sedotto, è stato così definitivamente conquistato.