L’Orfeo di Monteverdi secondo Gardiner alla Fenice di Venezia

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La Fenice ha accolto con una standing ovation l’Orfeo di Monteverdi diretto da Sir John Eliot Gardiner lo scorso 19 giugno, il celebre direttore e regista inglese, interprete di riferimento nella riscoperta della musica antica e pioniere delle rappresentazioni filologiche, insignito proprio a Venezia nei giorni scorsi del Premio una Vita Nella Musica 2017.

Ideatore del progetto internazionale Monteverdi 450, in occasione dell’anniversario della nascita del compositore cremonese, Gardiner è stato ospite del teatro veneziano ove ha proposto, oltre all’Orfeo, Il ritorno di Ulisse in patria e L’Incoronazione di Poppea. Un’occasione unica, accompagnata anche da un convegno che si è svolto nei giorni precedenti alla Fondazione Cini,  per riflettere su uno tra i più geniali innovatori del linguaggio musicale moderno.

Gardiner rilegge Monteverdi come uno straordinario esploratore delle umane passioni, indagate in tutti i meandri più riposti ed espresse attraverso la musica che stratifica di significati multipli i testi letterari da cui trae ispirazione. La sua esegesi dell’Orfeo, ad esempio, lascia aperte molte possibilità interpretative celate nel libretto di Alessandro Striggio jr. 

Accanto all’esaltazione della forza ammaliante della Musica-Euridice, cui dona voce il timbro suadente di Hana Blažíková, emerge l’intensa apologia dell’amore, energia che magnetizza gli sguardi dei due protagonisti ma che unifica e tiene saldo anche l’intero universo. Proprio grazie  all’amore  Plutone, affidato al magnifico Gianluca Buratto, si piega  alle implorazioni di Proserpina, l’angelica Francesca Boncompagni, che intercede per Orfeo, un Krystian Adam affascinante per completezza vocale  e intensità drammatica. 

Per amore egli spera e lotta contro ogni ragionevolezza, usando come arma di liberazione il proprio canto (odé) che incanta e ipnotizza Caronte. Orfeo è l’eroe sempre eccessivo in ogni sua manifestazione, un semidio che troppo gioisce e troppo soffre, ma di cui non si può non provare pietà nel momento in cui rimane privo (orbus) del suo tesoro più grande. Egli è inseparabile da Euridice perché lo è dal suono ed infrange un’unione potentissima, irrazionale quando, girandosi per accertarsi di essere seguito dall’amata, dubita e si stacca dall’odé, ovvero dal valore sovrumano della propria forza poetica, in grado di invertire le leggi della vita e della morte. Un potere che rimarrà trascendente anche nel momento in cui, sublimandosi grazie ad Apollo, il canto diventerà musica delle stelle, consentendogli di ritrovare in questa universalità la trasfigurazione di Euridice.

Forse allora Monteverdi con la sua favola musicale intendeva portarci nei misteriosi labirinti di un canto che si fa allegoria del processo creativo, capace di racchiudere gli abissi del cielo e della Terra? L’artista sciamano possiede la virtù di animare il mondo perché sa inserirsi nella forza della vita e la sua musica è espressione di quella energia misteriosa di cui tutto pulsa. Ma Euridice, perduta la quale tutto si spegne, potrebbe anche essere simbolo dell’anima che, liberatasi platonicamente dai vincoli del corpo, ascende dal regno della Notte fino a quello di Apollo.

Ipotesi che si intrecciano nell’immaginazione, avvinta  dal gesto morbido, nobile e pieno di poesia di Gardiner, dalla regia essenziale di Elsa Rooke, che si avvale anche dello spazio scenico offerto dalla platea, e dal pregnante gioco di luci di Rick Fisher. Esemplare la resa del Monteverdi Choir e degli English Baroque Soloists, il cui colore nitido e screziato restituisce un Monteverdi dalla sincerità e modernità struggenti.

Foto di copertina: Hana Blažíková

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