In uno dei concerti più ricchi e variegati della stagione sinfonica 2016/2017, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha ospitato nell’Auditorium romano il direttore statunitense Michael Tilson Thomas e il duo pianistico Katia e Marielle Labèque in un inconsueto abbinamento del Concerto per due pianoforti in mi bemolle maggiore K 365 con la Quinta Sinfonia di Gustav Mahler (ci riferiamo al concerto di sabato 27 maggio). In apertura vi è stata la dichiarazione, espressa per voce di Carlo Maria Parazzoli, spalla dell’orchestra, di voler dedicare il concerto da parte del direttore e delle due pianiste alle vittime di Manchester, omaggio accolto con un lungo e sentito applauso del pubblico romano. La prima parte del concerto è stata dedicata ad uno dei dei concerti mozartiani più celebri, eseguito in una versione dall’organico più ridotto e cameristico (senza clarinetti, trombe e timpani). E’ stato ipotizzato che il compositore abbia probabilmente scritto il concerto per sé e per l’amatissima sorella Nannerl, anche se non esistono documenti certi né sulla datazione né sugli effettivi destinatari.
Al di là di tesi più o meno suggestive, i due pianoforti intessono un dialogo che implica una profonda comunanza di intenti, dividendosi, per citare il classicissimo Hermann Abert, “ogni loro melodia, variano uno la musica dell’altro, si interrompono vicendevolmente all’occasione discutono gentilmente”. Quale migliore contesto per le sorelle Labèque per confermare il loro splendido affiatamento, sin dalla grazia decisa da atlete con cui fanno il loro ingresso sul palcoscenico. L’amalgama dei timbri dei due pianoforti, la delicata brillantezza del suono, morbido e argenteo quello di Katia, appena più scuro quello di Marielle, il loro fraseggio mosso da un’agogica affatto statica e molto teatrale hanno reso omaggio ad un Mozart gioiosamente espressivo, specialmente nel Rondò finale, brillante e scorrevolissimo, coronato da vertigini armoniche e trilli quasi ipnotici. Il direttore e l’orchestra hanno assecondato l’estro delle due pianiste francesi, che hanno concesso uno splendido bis a quattro mani con Le Jardin Féerique da Ma mère l’oye di Ravel, un incanto di sonorità liquide e sospese apprezzatissimo dal pubblico.
L’impegnativa seconda parte del concerto ha visto come protagonisti assoluti Tilson Thomas e l’Orchestra Nazionale di Santa Cecilia, in uno dei cavalli di battaglia del direttore statunitense che a Mahler si dedica da sempre, sin dai tempi dei corsi a Tanglewood alla fine degli anni Sessanta sotto la mentorship generosa di Leonard Bernstein. Della sua dedizione a Mahler è simbolo la registrazione integrale dal vivo dell’opus sinfonico mahleriano (The Mahler Project 2001-2009) con la San Francisco Symphony, di cui è direttore musicale dal 1995. A proposito di quel ciclo, lo stesso Tilson Thomas sostiene di aver provato a incoraggiare i musicisti a correre dei rischi: a suo parere, se Mahler richiede agli esecutori un approccio di “grande delicatezza, bellezza e raffinatezza”, allo stesso modo è talvolta necessario “uno stile da musicisti di strada, un abbandono rozzo e disperato al contempo” (Bernstein docet). In questo senso la sua interpretazione della Sesta sinfonia (registrata un giorno dopo la catastrofe dell’11 settembre 2001) è considerata ormai di riferimento per intensità emotiva e straordinaria prestazione direttoriale.
Più controverso risulta invece il suo approccio alla Quinta, di cui il direttore – a capo di un’orchestra duttile, in cui si distinguono le sonorità setose degli archi – ha dimostrato di conoscere ogni dettaglio più recondito. Impressionante è la sua perizia nel dirigerla a memoria e parte del piacere del concerto è stato anche nell’ammirare il gesto ampio e la precisione acribica con cui egli guida l’orchestra, rigorosamente disposta con la separazione antifonale dei violini, la cui sonorità plasma gli equilibri timbrici di tutta l’orchestra. In effetti Tilson Thomas non risparmia alcun rischio ai musicisti, con le sue scelte di tempi non stringenti e distesi che evidenziano i tratti più disgreganti dell’orchestrazione mahleriana, tra improvvise dissoluzioni, l’assenza di nette cesure formali, il sovrapporsi di materiali sonori e di timbri in iperestensione in un tessuto densamente contrappuntistico eppure trasparente, le prospettive multiple di memorie e reiterazioni che non concludono. Nell’approccio interpretativo del direttore statunitense si percepisce tutto il carattere di work in progress della Quinta, cui Mahler continuò a lavorare sino all’ultimo, cercando di rifinire al meglio la strumentazione di quella complessa polifonia di temi e timbri diversi e contrastanti. Ciò si traduce in una vera e propria messa in scena della sonorità orchestrale: plastica e scenografica allo stesso tempo è la visione di Tilson Thomas che, in particolare nei primi tre movimenti (il Trauermarsch seguito senza soluzione di continuità dal secondo movimento Stürmisch bewegt e, dopo la lunga pausa, lo Scherzo kraftig, nicht zu schnell) può permettersi di ‘sfruttare’ la ricchezza di ‘effetti’ della scrittura mahleriana. Coesione e chiarezza non vengono mai meno grazie ad un sapiente controllo sia dei volumi sonori, che alternano il tono cameristico ad una pienezza mai troppo esibita, sia della metrica, resa imprevedibile e spesso sospesa tra vuoti e Luftpausen. Nel primo movimento ha colpito il contrasto tra la secchezza della prima marcia introdotta dal celebre segnale militare della fanfara di tromba e la malinconia della seconda marcia, il tema ‘funebre’ vero e proprio che costituisce l’idea principale in costante divenire, reso con intensità dal setoso legato dei violini, già ‘aus der ferne’ (da lontano). Nel secondo movimento il fraseggio franto ed espressivo, quasi operistico, specialmente in alcuni passaggi dei violoncelli e delle viole sul pedale dei timpani, ha reso evidenti i luoghi più nascosti del tessuto polifonico mahleriano.
La lettura più problematica e rischiosa è stata quella dello Scherzo, in cui Tilson Thomas, interpretando alla lettera l’indicazione agogica ‘non troppo veloce’ per valzer e ländler disarticolati, non ha nascosto i pericoli di disgregazione della forma e del tessuto connettivo dei timbri insiti nell’orchestrazione mahleriana. Scopo principale, molto modernista, sembra voler essere la massima differenziazione timbrica nell’ambito della condotta delle voci in contrappunto denso eppure trasparente. La netta cesura fra il terzo movimento e l’ultima parte della sinfonia, costituita dalla successione ininterrotta dell’Adagietto e del Rondò-Finale, non poteva essere resa in maniera più evidente. Il fraseggio ricco di Luftpausen e portamenti del celebre Adagietto ha richiamato la lezione dell’espressività di Mengelberg, che lo definiva “una lettera d’amore”. Con semplicità e rigore Tilson Thomas è riuscito a dare un senso coerente al blocco conclusivo della sinfonia, collegando in maniera fluida e naturale l’Adagietto all’enigmaticità ossessiva del Rondò-Finale. Privandolo degli eccessi retorici, il Finale della sinfonia, spesso troppo enfatico o confuso, è risultato di una chiarezza esemplare. La capacità di sintesi narrativa del direttore ha proiettato il Rondò in una dimensione di ironica leggerezza quasi ‘viennese’ (cui le nostre orchestre sono poco avvezze), un altrove in cui realtà e illusione non sono più distinguibili, tra avvitamenti e stratificazioni di un discorso mai scontato e lineare. Il lungo applauso di un pubblico partecipe e ammirato ha suggellato la splendida performance.
Foto di copertina: Michael Tilson Thomas