Due le linee guida del concerto che ha avuto come acclamati protagonisti, lo scorso 21 maggio al Teatro La Fenice, James Conlon e l’Orchestra Sinfonica della Rai: da una parte l’evoluzione della musica programma, dall’altra la raffinata sperimentazione di nuovi impasti e timbri orchestrali in un repertorio che spaziava da Berlioz alle avanguardie del primo Novecento.
In Harold en Italie, Sinfonia per viola concertante e orchestra ispirata al Childe Harold’s Pilgrimage di Byron, eseguita in prima assoluta a Parigi nel 1834, Conlon valorizza intensamente il ruolo drammaturgico svolto dallo strumento solista, un’eccellente Ula Ulijona, alla cui voce velata e profonda il compositore affida l’espressione introflessa del proprio tormentato male di vivere, come Liszt abilmente intuì.
La solista lituana si sposta sul palco come un personaggio teatrale, rivivendo su di sé le trasformazioni emotive che conducono il protagonista dalle scene montane del primo quadro alle esperienze religiose evocate dalla Marcia dei pellegrini per culminare nei vivaci ritmi abruzzesi e nelle demoniache orge dei briganti, in cui riemergono le esperienze più salienti fino ad allora vissute. Ma al di là di questo aspetto esteriore, è proprio l’appassionata difesa che Liszt compie del lavoro byroniano, pubblicata a più riprese nella Neue Zeitschrift für Musik, ad offrirci ulteriori elementi di riflessione per comprendere più approfonditamente la visione che il direttore newyorkese propone della Sinfonia di Berlioz.
Secondo Liszt l’inserimento dell’elemento poetico all’interno delle opere strumentali svolge la funzione di “indicare a scopo preparatorio i momenti spirituali che hanno spinto il compositore alla creazione della sua opera” . Per realizzare questa radicale innovazione, che introduce nella musica assoluta una sorta di “epopea filosofica”, Berlioz inventa un nuovo metodo compositivo, quello del Leitmotiv, una sorta di “idea fissa”, una “melodia caratteristica”che simboleggia il personaggio e le sue trasformazioni interiori. L’interpretazione del poema byroniano offerta da Berlioz appare come una libera interpretazione del testo byroniano, “una riflessione sui contrasti scaturiti dal contatto di un cuore, gonfio di dolore e stanco per le delusioni subite, con il sereno cielo d’Italia”.
Conlon sembra fare tesoro di queste indicazioni che ribadiscono l’autonomia del linguaggio musicale, capace di lasciarsi suggestionare da un testo poetico ma anche di ricrearlo con grande libertà immaginativa. Harold viene così liberato da ogni eccesso emotivo e dalla tentazione di cadere nella Malerei, come l’avrebbe chiamata Beethoven, ovvero in quella “pittura musicale” che impoverisce la capacità espressiva della musica. La partitura di Berlioz rifulge grazie ai propri valori puramente musicali attraverso uno sguardo analitico lucido, sempre attento agli equilibri formali e alle intuizioni coloristiche di Berlioz anche dove la scrittura più si arroventa, come avviene nell’Allegro frenetico conclusivo.
Una prospettiva che proietta Berlioz quale precursore del sinfonismo ormai solo vagamente descrittivo di La Mer, sganciata a propria volta da atmosfere brumose e misteriose. Nei tre schizzi sinfonici di Debussy il mare non è quello che si può intuire attraverso un’esperienza oggettivamente vissuta en plein air, ma è un mare ricordato, immaginato, ricostruito al tavolino. È proprio questo aspetto strutturale a caratterizzare la lettura di Conlon che, lasciato da parte ogni riferimento simbolista e junghiano, si concentra sull’esaltazione della potenza originaria e creatrice del suono, maestosa come l’alba su un mare striato da pennellate turgide.
Proprio Debussy fu tra gli entusiasti ammiratori de L’Oiseau de feu, il balletto con cui nel 1910 il giovane Stravinskij ammalia il pubblico dell’Opera di Parigi inaugurando la fortunata collaborazione con Djagilev e i suoi Ballets Russes. La componente programmatica, ispirata a un’antica fiaba russa già utilizzata da Rimskij Korsakov nella sua opera Katschej l’immortale, diventa ormai solo un pretesto per un capolavoro di orchestrazione di cui Conlon sottolinea tutta la modernità. Sagome spigolose e rutilanti guizzi di colore si alternano a dilatazioni catalettiche del tempo in cui l’energia pare distendersi per poi riesplodere improvvisa attraverso contrasti ritmici di straordinaria efficacia. L’Orchestra della Rai brilla compatta ed equilibrata. Mancano talvolta le ricerche delle velature dinamiche più sottili, compensate però da un divisionismo timbrico dalla trasparenza assoluta.