«È il vangelo umano dell’arte dell’avvenire. Dopo di essa non è più possibile alcun progresso». Così scriveva Richard Wagner nel suo Das Kunstwerk der Zukunft (L’opera d’arte dell’avvenire, 1849) parlando della Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven. Quindi, parafrasando Goethe: ascolta la Nona e poi muori. Ovviamente non si chiede tanto a un ascoltatore, ma è bene tener presente la portata storica di questa sinfonia. Fu unica nel suo genere almeno fino a ‘800 inoltrato. Un’opera monumentale dalla lenta gestazione. Beethoven iniziò ad abbozzare idee non ancora ventenne, periodo nel quale frequentava l’élite intellettuale di Bonn, dove entrò in contatto con personaggi del calibro di Eulogius Schneider (grecista ed entusiasta sostenitore degli ideali della Rivoluzione Francese) e Ludwig Bartholomeus Fischenich (docente di diritto e amico di Schiller). È probabile che proprio grazie a quest’ultimo che il giovane Ludwig entrò in contatto con le opere di Schiller, in particolar modo con quell’Ode An die Freude (scritta nel 1785 e pubblicata l’anno seguente) che era già un simbolo degli ideali dei giovani tedeschi. Di più, quest’Ode sarà parte integrante del rivoluzionario quarto e ultimo movimento della sinfonia eseguita per la prima volta venerdì 7 maggio 1824. Rivoluzione segnata dall’impiego di coro e voci solistiche che intonano proprio quell’Ode alla Gioia, un invito a comprendere che la vera gioia può essere raggiunta solamente se gli uomini si rendono conto di essere tutti fratelli amandosi gli uni con gli altri.
Questo è certamente uno dei momenti più alti della nostra storia musicale, sicuramente uno dei più famosi. Herbert von Karajan ne improntò tre diverse versioni: per piano solo, per banda e per orchestra sinfonica. La sola musica, privata del testo, fu adottata nel 1972 dal Consiglio d’Europa come inno della comunità in quanto «senza parole, con il linguaggio universale della musica, questo inno esprime gli ideali di libertà, pace e solidarietà perseguiti dall’Europa». Ma se Karajan trascrisse solo una piccola parte della monumentale opera, Franz Liszt trascrisse l’intera composizione per pianoforte solo. Il compositore ungherese pubblicò la versione definitiva dopo anni di intenso lavoro e continue revisioni, finalizzate a rendere con la massima fedeltà la complessità dell’originale beethoveniano. Il risultato è un’opera di grande virtuosismo che unisce le difficoltà della musica di Beethoven a quelle della tecnica trascendentale di Liszt. Il Teatro Verdi di Pordenone, in occasione del 15° anniversario dell’inaugurazione, inizia il suo percorso verso la ripartenza “live” dello spettacolo proprio con l’esecuzione della Sinfonia n. 9 in re minore op. 125, nella versione per piano solo. Solo, nel vero senso del termine. Il pianista Maurizio Baglini, uno fra i nove virtuosi del pianoforte al mondo che affrontano questa complessa composizione, salirà sul palco del teatro Verdi in completa solitudine; dinanzi a lui una silenziosa sala vuota. Il ritorno in teatro, seppur in solitudine, è pure un piccolo segnale di ripresa che lascia ben sperare. Già nelle scorse settimane, Giovanni Lessio, Presidente del Teatro Verdi, aveva lanciato un appello al mondo delle istituzioni e della cultura perché agli artisti fosse permesso di lavorare in teatro, anche in assenza di pubblico.
Il concerto è in programma oggi giovedì 28 maggio alle ore 18.30 (giorno in cui si sarebbe dovuto attribuire il Premio Pordenone Musica, ideato proprio per omaggiare la diffusione della cultura musicale), trasmesso in diretta live streaming sul canale del Teatro Verdi. La programmazione del teatro pordenonese si è trasferita sul sito e sui canali Social già dal mese marzo con una trentina di appuntamenti, riscuotendo un gran successo di pubblico con oltre 85mila visualizzazioni.
«Affrontare 208 pagine a memoria e 140 strumentisti in dieci dita», spiega Maurizio Baglini, «è un’impresa titanica e gratificante, una scarica d’adrenalina impareggiabile che sfocia nell’Inno alla Gioia».
Info: live.comunalegiuseppeverdi.it
Federico Furnari