La scomparsa di Alberto Cantù: un ricordo e un omaggio nel segno di Puccini

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Alberto Cantù è morto a Milano due giorni fa, lunedì 18 gennaio. Aveva combattuto negli ultimi anni, con la riservatezza e lo stile che gli erano propri, una malattia che non concede perdono.

Classe 1950, orgogliosamente genovese, aveva il violino di Paganini nel dna e Puccini nel cuore. Docente di Conservatorio, musicologo (sapeva di violino e violinisti come pochi altri), per trent’anni – dal 1976 al 2006 – era stato il critico musicale de Il Giornale. E dell’allontanamento da quella testata aveva sofferto più di quanto dicesse. A lui, che di questo mestiere aveva una visione integra e alta che mal si sposava con alcune recenti derive, dedichiamo la ripubblicazione di un articolo che mi aveva proposto e poi scritto per Amadeus nel 2016, dedicato al “suo” Puccini, sì, ma raccontato nell’inedita veste di critico musicale e non solo in quella di compositore. 

Noi lo abbiamo riletto con l’emozione di oggi e con il piacere e l’interesse di sempre, certi che sarà così anche per voi.

Ciao, Alberto.

Paola Molfino

 

PUCCINI CRITICO MUSICALE

«Chi sa fa, chi non sa fare critica», chiosava la mente acuminata di Georg Bernard Shaw. Il quale Shaw però, oltre a sapere fare, era pure critico musicale formidabile sia pure per procurarsi l’argent de poche. Per primo individua in Giacomo Puccini – ascolta Manon Lescaut a Londra; è il 1894 – l’erede di Giuseppe Verdi. Lo riconosce tale anche se ben comprende che il mondo pucciniano dista anni luce da quello verdiano nel rispecchiare – Puccini campione della modernità – le ansie e gli smarrimenti dell’uomo del XX secolo, nell’accogliere e lenire i suoi bisogni emotivi.

Shaw risulta precocissimo e iperacuto anche nel confronto Puccini-Mascagni e nel valutare a caldo Cavalleria rusticana, per nulla turbato dalla turbolenza mondiale che l’atto unico provoca dalla sua apparizione romana nel 1890. Se in Puccini – scrive –, «il contesto è così cambiato che si potrebbe pensare di essere in un paese nuovo», Cavalleria come i Pagliacci prossimi venturi (1892) di Ruggero Leoncavallo, non è altro che «l’opera di Donizetti razionalizzata, concentrata, inzeppata e radicalmente modernizzata».

A differenza di Robert Schumann, per cui quella di critico musicale è professione ed arte, o di Hector Berlioz, pagato un tanto a riga – anche per lui il mestiere di chroniqueur rientra fra i travaux alimentaires –, Puccini non esercita mai la critica. Almeno non lo fa ufficialmente o in senso tradizionale ma le lettere alla mamma Albina e al fratello (i Puccini sono musicisti da cinque generazioni), all’editore e vice padre Giulio Ricordi o ai tiranneggiati librettisti contengono osservazioni e pagine critiche di tutto rispetto anzi folgoranti. Che il primo volume dell’Epistolario (a cura di Gabriella Biagi Ravenni e Dieter Schickling) per l’Edizione Nazionale delle Opere di Giacomo Puccini (Olschkli, Firenze 2015) – 150 lettere inedite – conferma e ribadisce sin dagli anni 1877-1896: l’arco di tempo che copre gli studi milanesi, Le VilliEdgar La bohème.

Ecco così un Puccini che non è da meno di Shaw quanto ad acutezza nel suo giudizio su Cavalleria nonostante voglia bene all’ex compagno di studi milanesi e (forse) di stanza, a colui assieme al quale ha comprato lo spartito del neo pubblicato Parsifal. Prendiamo una lettera dell’agosto 1890 a «Miele» (Michele), il fratello mezzo musicista e tutto scavezzacollo precocemente scomparso. Cappello, come si dice in gergo giornalistico (filato: senza punteggiatura). «Mascagni è salito alla gloria la più sgonfiata si è fatta la Cavalleria Rusticana prima a Roma poi Livorno Firenze Bologna Torino adesso si farà alla Scala dove quest’anno impera [l’editore] Sonzogno si darà il Cid  la Cavalleria, la Lionella di Samara [prima alla Scala] e un’opera nuova di Gomes [autore del popolare Guaranydel quale l’altro giorno al Dal Verme sentii la Fosca [del 1873] orribile opera senza l’ombra di modernità e senza quella vena melodica italiana all’antica, niente, preferisco la Jone [di Petrella] figurati! Almeno nel suo trivialismo è più sincera».

Valutazione critica di Cavalleria (e pensi a Shaw) con Premessa. «Ritornando a Mascagni, il Corriere e la Lombardia ne dissero ira di dio; il Corriere dice che è una fila di canzonette alla Tosti e la Lombardia l’analizza nota per nota distruggendo tutto. Intanto il Secolo [quotidiano di Sonzogno] strombazza ai 4 venti il nuovo Genio etc: la Musica Italiana risorta lo chiama il Bizet d’Italia [sottolineatura d’enfasi e disapprovazione]». Giudizio lapidario ma non sommario. «A me piace poco la musica, niente originalità e ha rubato tutto, effetti vecchi; l’unico pregio è il dramma bellissimo di Verga ridotto a melodramma benissimo e la gran rapidità e facilità di melodie, scorrevoli orecchiabili, con violinate, insomma tutti i pistolotti finora in uso».

Certo. Puccini critico musicale spesso assona con Puccini compositore e le sue tre “anime”: italiana, francese, e tedesca. Anima italiana vuole dire teatralità infallibile che Giacomo eredita anzitutto dal suo maestro di composizione a Milano Amilcare Ponchielli e naturalmente dalla lezione di Giuseppe Verdi (la folgorazione di Aida nel 1876). Il côté francese è attestato dal gusto armonico, da debussismi prima di Debussy, da tinte, soggetti, ambientazione e anche dall’amore inteso come eros. Di qui, in una lettera alla madre del 1882, gli elogi rivolti ad una novità per l’Italia di Massenet alla Scala, l’Erodiade ascoltata «in piccionaia con una lira e mezzo» («che bella musica!il pubblico [sulle prime maldisposto] si è dovuto chinare davanti al Genio indiscutibile di Massenet»; l’Oratorio La Rédemption di Charles Gounod, battezzato alla Scala sotto la bacchetta di Franco Faccio nel 1883, invece non gli piace: roba vecchia che lo ha «nojato mortalmente».

Quanto a Wagner, per tornare alle “anime” pucciniane, da erede di musicisti che da generazioni sono chiamati per fornire lavori alle festività civili e religiosa di Lucca, Puccini chiede al drammaturgo strumenti concreti, linguistici da annettere al proprio mondo. Ricordi lo manda a Bayreuth, sulla Sacra collina, per i Maestri cantori in vista dell’allestimento scaligero prossimo venturo – prima italiana – che prevede una versione stile Reader’s Digest: scorciata (da Puccini) d’un terzo.

Giacomo ne parla in una malinconica lettera-cronaca al fratello del 1° maggio 1890. «I Maestri cantori alla Scala hanno avuto una buonissima esecuzione, specie la Gobbi [recte Gabbi]. Ma non ci va nessuno. Qui tutti hanno l’influenza compreso [il maestro concertatore Franco] Faccio e molti dell’orchestra e dei cori. […] Tempo orribile. Nebbia e pioggia fina. Mezza Milano è influenzata. Domani credo che chiudano le scuole».

Dopo le prove di Lescaut (lettera a Ricordi dell’agosto 1892; l’opera sta per debuttare al Teatro Regio di Torino) dice che orchestra e coro «fanno niente più che le note, non hanno forza, par che suonino, e cantino sotto il palco». Del baritono che debutterà Marcello, Tieste Wilmant (lettera a Luigi Illica del 1° ottobre 1896) ribadisce: «è vilenon capisce uno zero; e non riuscirà neppure si provasse quanto a Bayreuth» (viene in mente Michelangelo Zurletti quando, a proposito di un sedicente Heldentenor, scrisse che aveva «l’eroismo d’un bignè»: bei tempi!).

Osservazioni critiche pucciniane del 1906, l’anno funestato dalla morte di Giuseppe Giacosa (nel ’12 se ne andrà anche il Sor Giulio). Richard Strauss. «La Salomè [sic] è la cosa più straordinaria cacofonia terribilmente [sic] ci sono delle sensazioni orchestrali bellissime ma finisce a stancare molto».

Pelléas et Mélisande di Claude Debussy con un giudizio da operista nato e – appunto – italiano anche se ammiratore (non contraccambiato) di Debussy. L’opera ha «qualità straordinarie di armonie e sensazioni diafane strumentali». È un teatro che però «“mai” ti trasporta, ti solleva è sempre d’un colore “sombre”, uniforme come un abito di Francescano»; è «il soggetto che interessa e fa da rimorchiatore alla musica» (NB Alla ricerca del soggetto giusto che sarà Madama Butterfly, Puccini pensa a Pelléas et Mélisande. Pare che Maurice Maeterlinck restasse molto deluso dall’accordo mancato con il celebre operista; i diritti, però, li aveva già ceduti a Debussy).

Aggiornato e curioso, acuto e coerente – il fascino delle “sensazioni”  non basta a fare teatro musicale – Puccini vede il mondo che cambia sotto i suoi occhi in un decennio difficile per lui e per tutti: «Rinnovarsi o morire?» si domanderà retoricamente. I tempi, più ancora che il tempo, incalzano e affannano: «È triste, è triste molto perché il tempo se ne va di corsa». E confessa: «Com’è difficile scrivere un’opera oggi!».

La polemica lo porterà a dire, più borbottone che convinto delle sue parole: «Ormai il pubblico per la musica nuova non ha più il palato a posto; ama, subisce musiche illogiche, senza buon senso. La melodia non si fa più o, se si fa, è volgare. Si crede che il sinfonismo debba regnare e invece io credo che è la fine dell’opera di teatro. In Italia si cantava, ora non più. Colpi, accordi discordi, finta espressione, diafanismo, opalismo, linfatismo. Tutte malattie celtiche, vera lue oltremontana».

Ne «la melodia non si fa più» c’è anche la polemica nostrana con Ildebrando Pizzetti e il suo declamato; e una valutazione, peraltro azzeccata, di Debora e Jaele (1922, gli “brucia” anche che a dirigerne la prima alla Scala sia l’odiosamato Toscanini) dove – notazione profetica – «l’abolizione della melodia è un grande sbaglio perché quest’opera non potrà mai aver vita lunga».

Ancora. Se la chiosa pucciniana sul Sacre du printemps di Stravinskij è «roba da matti» (ma in Turandot un passo – le quattro note di “Mai non langue” –  fa il paio con uno negli Auguri primaverili proprio del Sacre), a Vincenzo Tommasini, incontrato in una via di Parigi, dopo avergli chiesto se avesse ascoltato e visto la novità stravinskiana – non ancora –  caldeggia: «Ci vada; perché di quella musica si parlerà ancora quando non si parlerà più della mia». Roba da matti ma da matti di genio che fanno la Storia della musica come Puccini critico riconosce.

Alberto Cantù

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