Dopo il festival d’Automne, che a Parigi ha dedicato un ampio ritratto a Claude Vivier, a 70 anni dalla sua nascita, anche il Théâtre du Capitole di Toulouse ha reso omaggio al compositore canadese con una nuova produzione dell’opera “Kopernikus” (allestita al Théâtre Garonne).
Opera per sette cantanti, sette strumentisti e nastro, messa in scena per la prima volta a Montréal nel 1980, “Kopernikus” è un «rituale di morte» e insieme un racconto iniziatico che riflette bene la visione relativistica di Vivier sulla vita e sulla morte, e la fascinazione delle cerimonie di cremazione cui il compositore assistette durante il suo soggiorno a Bali nel 1976. “Kopernikus” è però anche, in qualche modo, una rappresentazione autobiografica e profetica, legata alla tragica esistenza di Vivier, nato a Montréal da genitori ignoti, adottato, muto fino a sei anni, violentato da uno zio a otto anni, destinato al sacerdozio, sedotto dalla musica durante una messa di mezzanotte, morto accoltellato da un escort-boy all’età di 34 anni, quando aveva appena iniziato a scrivere un’opera sulla morte di Čajkovskij.
Non stupisce dunque che la morte e le tematiche religiose ad essa connesse attraversino tutta la produzione di Vivier e si ritrovino in questa favola mistico-surrealista, su un libretto (dello stesso compositore) scritto in gran parte in una lingua inventata, incomprensibile e suggestiva, con lo stesso spirito infantile e onirico di Alice nel paese delle Meraviglie. Un libretto senza azione, che disegna un universo enigmatico, situato tra il reale e l’immaginario, dove si incontrano, come in un sogno, Lewis Carroll, il mago Merlino, la Regina della Notte, Tristano e Isotta e Copernico, cioè colui che ha trasformato radicalmente il paradigma della nostra visione del mondo. Tutti personaggi che accompagnano la protagonista, Agni (divinità del fuoco indù) nel suo rituale iniziatico verso il raggiungimento dello stato di puro spirito.
Vivier, che è stato allievo di Stockhausen a Colonia e seguace come lui di una sorta di sincretismo religioso, ha creato per quest’opera una musica mantrica e incantatoria. E a Toulouse ha affascinato il suo lento dipanarsi come un grande madrigale, dominato da un melodizzare ripetitivo e spigoloso. Sfruttando varie modalità di emissione (parlato, sussurrato, Sperchgesang, risate, fischi, mani sulla bocca), il canto aveva allo stesso tempo un potere ipnotico e la freschezza di un gioco infantile. Procedeva per declamati stilizzati, o prendeva la forma di ampi corali, interagiva strettamente con la parte strumentale, pure dalle armonie ipnotiche, dominata dal colore morbido di un trio di clarinetti, con interventi quasi “parlanti” degli strumenti solisti, con le percussioni metalliche che scandivano il rituale come rintocchi di un gamelan.
Peter Sellars ha dato forma scenica a questa fantasmagoria cosmica, enfatizzandone la dimensione estatica e rituale – anche lui aveva assistito anni fa a una cerimonia di cremazione a Bali, ricordandola come un’esperienza «magnifica e liberatoria», un rito notturno fatto di musica e danza, lacrime e risate, lamenti e suoni del gamelan. L’allestimento, volutamente minimalista, con pochi oggetti, poche luci, pochi colori, era tuttavia intenso e commovente, ricordava la teatralizzazione che il regista americano aveva fatto anni fa della cantata bachiana Ich habe genug (con Lorraine Hunt) o la sua regia della Theodora di Händel.
Al centro della scena un morto (il coreografo e danzatore Michael Schumacher), disteso su un tavolo. Da un monitor il volto bello e freddo di una giovane donna che raccontava le visioni dell’universo da Aristotele a Copernico, evocando un futuro luminoso e rasserenante. I sette cantanti, di bianco vestiti (l’ottimo ensemble vocale statunitense Roomful of Teeth), si muovevano con gesti ieratici e un tablet in mano (quasi un oggetto sacro), intorno al defunto, come nel tentativo di insufflargli una nuova vita, mentre gli strumentisti suonavano su un praticabile rialzato dietro ai cantanti, e il trombettista dietro al pubblico.
Poi improvvisamente l’uomo cominciava a respirare, affannosamente, si alzava, danzava, come un Lazzaro risorto. Seguendo la sua danza, anche gli strumentisti scendevano sul palco e si mescolavano con i cantanti, e tutti insieme lentamente lasciavano la scena, salivano lentamente sugli spalti, tra il pubblico, in una lunga processione, poi uscivano dal teatro, sempre intonando un corale omoritmico, che si perdeva in lontananza.