Keith Jarrett fase seconda: mentre il pianista annulla performance e tournée, arriva La Fenice. Il disco documenta il memorabile “piano solo concert” veneziano del 2006. Ecco tutti i dischi imperdibili per gli amanti del jazz
Ivo Franchi presenta le ultime novità in fatto di jazz. Si comincia con il disco di Keith Jarrett, una (doppia) registrazione della sua performance al Teatro Fenice. Notevole anche la prova di Mappe, il jazz made in Italy.
Keith Jarrett, il free climber del piano
Beati quelli che c’erano quel giorno. Ma anche beati noi che oggi, possiamo mettere nel lettore il cd e ascoltarlo con calma; stiamo parlando de La Fenice (Ecm, distribuzione Ducale), il doppio album di Keith Jarrett registrato il 19 luglio 2006 nello storico teatro veneziano.
La tempistica dell’uscita non è casuale. Ha coinciso con la 62esima edizione della Biennale Musica di Venezia, dove il pianista di Allentown ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera.
Quei problemi di salute
Purtroppo non è riuscito a ritirarlo né a tenere il concerto che aveva previsto per l’occasione; un problema di salute lo ha costretto ad annullare la performance e la tournée che aveva in programma.
A dare parziale conforto agli appassionati provvede questo live, che fotografa l’esibizione di Jarrett. Dal 1996 in poi, cioè dopo il periodo della malattia (la sindrome da affaticamento cronico che somiglia alla depressione) le esibizioni in solitaria di questo free climber del pianoforte sono cambiate. È la fine di un processo artistico; la conclusione degli esperimenti del pianista con forme di improvvisazione assai lunghe, esibizioni basate su due set continui.
Il disco
In La Fenice si ascolta invece una suite di otto brani che spaziano da blues a passaggi atonali, da classici del jazz a ballad di toccante lirismo. Tra i bis ci sono il tradizionale My Wild Irish Rose (in precedenza su The Melody At Night With You) e lo standard Stella by Starlight. Ciliegina sulla torta la delicata Blossom, composizione originale che il jazzista aveva inciso nel 1974 con il quartetto europeo (quello con il grande sassofonista Jan Garbarek).
Insomma l’album si può considerare una sorta di scintillante Bignami del secondo periodo delle piano improvisations jarrettiane. Assolutamente imperdibile.
Lo stile di Keith Jarrett
Che in tempi non sospetti Jarrett abbia portato in auge la pratica della solo performance pianistica in ambito extra-classico, è innegabile. Tra quelli che hanno seguito il suo esempio, fatte le debite differenze, c’è Craig Armstrong.
Classe 1959, il compositore scozzese non ha un background jazzistico. Nasce come musicista classico e autore di colonne sonore per il cinema (con Moulin Rouge! di Baz Luhrmann ha vinto nel 2002 un Golden Globe) e vanta collaborazioni chic (Madonna, gli U2, i Massive Attack). Oltre a ciò, ha una produzione da solista raffinato e questo nuovo Sun on You (Decca, distribuzione Universal) ne è un perfetto esempio.
«Ho voluto creare un disco che avesse molto spazio; qualcosa che rallenti il ritmo del mondo in cui viviamo e ci regali un momento per respirare… La mia musica esalta l’assenza, il silenzio, le cose non dette…», ha spiegato Armstrong. Per l’occasione, oltre al piano, qui ricorre in qualche brano ai violini dello Scottish Ensemble e all’elettronica. Minimalismo neoromantico e da meditazione.
Dalla Russia con amore: Gleb Kolydian

Viene da San Pietroburgo, la città più à la page dell’ex impero sovietico, il pianista e tastierista Gleb Kolydian: un personaggio inclassificabile, eccessivo, a volte persino kitsch. Fattosi notare per il lavoro col duo Iamthemorning – composto da lui e dalla carismatica cantante Marjana Semkina, insieme alla quale ha firmato un paio di album – oggi il Gian Burrasca della nuova scena russa esordisce da leader con questo disco, in equilibrio instabile tra improvvisazione visionaria, tentazioni classicheggianti e progressive-rock.
Un po’ come se un Keith Jarrett ubriaco incontrasse Chopin e facesse poi una jam session con Emerson, Lake & Palmer. Il “pasticcio” ha però un non-so-che di fascinoso. Anche perché a dare man forte al virtuoso c’è un manipolo di valorosi amici di musica. Dall’inglese Gavin Harrison, brillante batterista dei Porcupine Tree e anche dei King Crimson, al flautista e sassofonista Theo Travis, complice delle imprese di Robert Fripp. Divertente, ma consigliabile solo agli amanti del prog-jazz di stretta osservanza.
Jazz made in Italy

Dietro la misteriosa sigla Double Cut si nasconde uno dei migliori gruppi del jazz made in Italy. Si tratta dell’insolito quartetto che allinea una coppia speculare di sassofonisti – il più noto Tino Tracanna e il collega, oltre che suo allievo, Massimiliano Milesi –, il contrabbassista Giulio Corini e il batterista Filippo Sala. Una proposta originale, la loro, un bell’incontro tra improvvisatori di generazioni diverse.
Mappe, secondo capitolo discografico della band, comprende otto composizioni originali più la ripresa di The Train and the River; è lo storico quanto avanguardistico tema scritto alla fine degli anni ’50 dal geniale multistrumentista Jimmy Giuffre. Quella dei Double Cut è musica dal forte impatto, energica e mai prevedibile. Tra momenti soul, echi contemporanei e persino twist sui generis, come per esempio Chiarivari. E ci ricorda soprattutto che Tracanna (classe 1956, leader e compagno d’avventure di big quali Franco D’Andrea, Paolo Fresu, Enrico Rava, Steve Lacy e Dave Liebman, solo per citarne alcuni) fa parte della crème degli improvvisatori italiani.
Peggy Lee, l’imperdibile ritorno

Tra le jazz ladies bianche che spopolavano negli anni ’50 – da June Christy alla maliarda Julie London, da Anita O’ Day all’aristocratica Helen Merrill – Peggy Lee occupa un posto speciale. Non fosse altro perché la bionda Norma Deloris Egstrom – questo il suo vero nome – portò al successo (prima di Elvis Presley) una versione di Fever super sensuale. E poi perché era la vocalist preferita di Frank Sinatra.
E, guarda caso, fu proprio The Voice negli insoliti panni di direttore d’orchestra ad assecondarne le gesta nel disco The Man I Love. Questo album notturno (pubblicato dall’etichetta Capitol di Los Angeles nel 1957) viene oggi ristampato in coppia con lo swingante Jump fo Joy, uscito l’anno dopo. I due dischi sono arrangiati da Nelson Riddle, grande firma del jazz; è anche autore della colonna sonora del film Lolita, capolavoro di Stanley Kubrick. Il che già basterebbe.
Ma c’è di più. Perché feeling, senso del ritmo, freschezza ed eleganza sono le doti di questa magnifica cantante, che da giovane si era fatta le ossa accanto al boss del clarinetto Benny Goodman. Di lei il grande bandleader e compositore Duke Ellington disse: «Se io sono il Duca, Peggy è la Regina
di Ivo Franchi