Italiani all’estero: in dialogo con il compositore Stefano Gervasoni

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Stefano Gervasoni, compositore dalla intensa carriera a livello internazionale, si è imposto come uno dei più importanti nomi italiani della sua generazione. Assegnatario di numerosi premi, tra cui il recente Premio della Critica Musicale “Franco Abbiati” (2010), il suo lavoro gli ha consentito di essere borsista della Fondation des Treilles a Parigi (1994), pensionnaire della Villa Medici a Roma (1995-96), borsista del DAAD a Berlino (2006). È stato altresì invitato come professore ai Darmstadt Ferienkurse, ai corsi della Fondazione Royaumont (Parigi), della Toho University di Tokyo, del Festival International di Campos do Jordão in Brasile, del Conservatorio di Shangai, della Columbia University (New York) e della Harvard University (Boston). Dal 2006 Stefano Gervasoni è altresì professore titolare di composizione al Conservatorio Nazionale Superiore di Musica e di Danza di Parigi. Ho recentemente avuto modo di lavorare con piacere sull’analisi ed esecuzione di alcuni suoi lavori compositivi e son sorte alcune domande che credo possano davvero rivelarsi interessanti per i conoscitori – ma anche gli eventuali non esperti – del suo linguaggio compositivo e della sua visione della musica.

Una prima curiosità è stata quella di comprendere quale tra tre personalità come Brian Ferneyhough, Peter Eötvös e Helmut Lachenmann abbia maggiormente influenzato la scelta compositiva estetica di Stefano G. e per quali specifiche ragioni.

«La dialettica “a distanza” tra i tre compositori citati è stata molto importante, più del contributo del singolo compositore. Dal punto di vista estetico mi sento molto più naturalmente affine a Lachenmann (musica intesa come organismo di suono e storia, approccio acustico e linguistico nello stesso tempo), ma il dover trovare il mio percorso tra le tre sollecitazioni diverse rappresentate da Brian Ferneyhough, Peter Eötvös e Helmut Lachenmann mi ha veramente obbligato a cercare una mia voce e a svilupparla. Ferneyhough: nessun edonismo, nessuna seduzione sonora, complessità dell’elaborazione compositiva, nessun indugio in soluzioni facili; Peter Eötvös: rigore assoluto della scrittura e controllo totale da parte del compositore al momento dell’esecuzione. Lachenmann, oltre a quanto già detto: visionarietà, spirito utopico (prolungamento dell’esperienza di Luigi Nono, che considero il mio iniziatore), invenzione sonora e pertinenza della scrittura strumentale e vocale, musica come esperienza trascendente, capacità di un pensiero riflessivo profondo sulla musica, sulla sua fruizione e sulla sua funzione».

La contestuale esperienza di crescita professionale e di lavoro, con un focus rilevante su due Paesi confinanti ma diversi, quali Francia e Italia, credo gli abbia consentito di comprendere una serie di elementi sensori che dettano, nel quotidiano, scelte diverse nel mondo della produzione/fruizione della musica contemporanea; ho chiesto a Stefano G. di illustrarci le differenze e aiutarci a spiegarle e conoscere.

«La musica italiana di oggi, non più dominata dalla divisione tra le scuole donatoniane e sciarriniane che l’aveva caratterizzata negli anni della mia formazione, sta tuttora dando prova di una grande vitalità, creatività e fantasia. Gli artisti italiani sono certamente tra i più creativi del panorama mondiale di oggi, anche nel senso di sapere trovare da soli i propri mezzi espressivi e di saperli piegare alle proprie esigenze (una versione evoluta dell’Arte di arrangiarsi, tipica di noi italiani, sia detto anche con un po’ di ironia). In anni certamente più difficili rispetto a quelli in cui ero studente di conservatorio, nei quali lo statuto della musica d’arte (o colta che dir si voglia) è sempre meno riconosciuto socialmente ed educativamente, e sempre più messo in discussione dalle politiche culturali dell’entertainment puro e semplice che è diventato logica dominante ovunque. In Francia a una vita musicale molto più strutturata (festival di musica contemporanea, programmazioni che integrano la musica contemporanea, commissioni ai compositori, workshop e seminari di composizione e una istruzione in conservatorio di altissimo livello) corrisponde una creatività inferiore: prevale, a mio parere, il bisogno di mettere ordine, formalizzare, rispondere a una motivazione di tipo scientifico o comunque razionale; oppure di sedurre, affascinare, provocare. Tutto ciò per me è solo un esito secondario di un autentico desiderio espressivo, che agisce nel profondo e scava o rovescia i solchi della ragione, del mestiere, degli affetti, e infine lascia le proprie tracce sonore che hanno così una valenza comunicativa, estetica, sociale e una fattura artistica non predeterminate».

L’esperienza didattica e, nello specifico, la docenza di composizione in uno dei Conservatori più prestigiosi, come quello di Parigi, sicuramente ha prodotto in un compositore come Gervasoni, l’elaborazione di uno specifico approccio didattico, di cui gli abbiamo chiesto di parlarci.

«Molta complicità con l’allievo nel rispetto dei ruoli. Il mestiere – il savoir faire, la fattura artistica – è importante e la conoscenza della storia e dei rapporti che con essa si istituiscono sono fondamentali. Si tratta di affinare i propri strumenti espressivi nel migliore dei modi per consegnarli a dei musicisti che tradurranno i segni del compositore (della sua volontà artistica cosciente e consapevole, con modestia, del posto occupato dalla propria musica nella vastità del patrimonio artistico esistente) in suoni di vita concreta. Non espressione dell’ego, ma controllo dell’ego attraverso la disciplina della composizione. In più, capacità di fare evolvere la propria arte nel tempo, in rapporto con la storia, segnale indispensabile di creatività, e miglior contributo che si possa dare al patrimonio artistico».

Un testo realmente interessante “Stefano Gervasoni. Le parti pris des sons” e il suo rapporto col musicologo Philippe Albèra; ho chiesto a Stefano G. di parlarci del tipo di lavoro condotto insieme per l’elaborazione finale del testo.

«La stesura del grosso volume di Philippe Albèra pubblicato per le edizioni Contrechamps nel dicembre del 2015 è durata parecchi anni. In tutto questo periodo ho risposto alle domande di Philippe Albèra (che potevano riguardare chiarimenti sui miei procedimenti compositivi, sulle mie intenzioni – biografiche, estetiche, pratiche, le mie scelte di organico, di testi da musicare, etc.), ma non sono mai intervenuto sulla stesura del libro, sul suo metodo espositivo, sul merito e sui contenuti che sono in tutto e per tutto frutto del desiderio e della volontà speculativi dell’autore. Tant’è che mi sono trovato a dovere leggere (e a non condividere) alcuni passaggi, in particolare alcune osservazione sul “post-modernismo” (le virgolette sono mie) di alcuni miei approcci compositivi. Ma riconosco a Philippe la piena libertà e autorevolezza del suo giudizio. Lavorare con lui nel rispondere a tutti i suoi quesiti mi ha permesso di avere una maggior coscienza del mio lavoro, ed è stata una grande opportunità per me (come avere uno psicanalista a proprio fianco per uno svariato numero di anni di analisi), e continuerò certamente a riflettere sugli elementi critici che Albèra ha ritenuto di dover mettere in evidenza. In definitiva, per il lettore un bel contributo alla conoscenza del mio lavoro e un invito a scoprirlo ulteriormente, e così pure per me che sono l’autore – ma non il maître assoluto – dei miei segni sonori».

Nell’ambito di un’attività intensa come quella di Gervasoni, gli ho chiesto infine di focalizzare la sua attenzione su almeno uno dei più recenti progetti compositivi rivelatisi di maggiore coinvolgimento per l’autore, sia dal punto di vista artistico sia di gratificazione di carriera.

«Dir – in dir. Un doppio ciclo vocale e strumentale per sei voci e sei archi, basato su tredici poesie di Angelus Silesius della durata di 45 minuti. Una composizione che è stata per me un viaggio iniziatico nell’esplorazione del suono e della parola, e dei molteplici legami e rimandi (e ambiguità e stati intermedi) che tra di loro possono essere intessuti concependo un lavoro musicale come una vasta architettura nella quale tutti i valori formali (della musica come della poesia) possono essere traslati in contenuti semantici e viceversa. La mia intenzione era di operare una disseminazione del senso al punto tale che i brani cantati diventavano pura musica (come delle “romanze senza parole” e i brani strumentali acquisissero una valenza vocale e un’intenzione di parola pressoché udibile. Ho concepito una forma a x che fa sì che questo doppio processo (quello del ciclo vocale e quello del ciclo strumentale) determini un centro nel quale musica e parole si sovrappongono in una identità quasi perfetta e misteriosa (al momento del celebre distico di Silesius “la rosa è senza perché”) dopo avere teso sempre più l’una verso l’altra e poi tornino a separarsi in una forma di nostalgia, che sostituisce l’anticipazione del desidero che fino a metà composizione li aveva mossi, del suono vocale diventato strumentale e del suono diventato voce. La composizione di questo pezzo mi ha richiesto svariati anni di lavoro (dal 2003 al 2011) ed è stato pubblicato in disco da “Winter & Winter”, e anche di questo disco – che contiene inoltre il mio Trio per archi con suoni esterni, un omaggio a Robert Schumann e a Paul Celan – sono molto contento. Comporre per la voce è per me essenziale: sto ora lavorando a una serie di madrigali a cinque voci (Milano Musica, novembre 2017) e comporrò poi un ciclo vocale da Nelly Sachs per mezzosoprano e orchestra (Charlotte Hellekant, Münchener Kammerorchester, febbraio 2018). Infine nel 2019 sarà realizzata una nuova opera corale (per Collegium Vocale Gent) con elettronica (IRCAM)».

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