Mantovano d’origine, veneziano d’adozione, Fortunato Ortombina, classe 1960, è stato da poco nominato nuovo Sovrintendente della Fondazione Teatro la Fenice, ruolo che affiancherà a quello di Direttore Artistico che svolge attivamente già dal 2001.
“A parte un paio di stagioni – sottolinea Ortombina – ho curato le scelte di programmazione artistica del Teatro negli ultimi quindici anni. Ringrazio tutti i Sovrintendenti che mi hanno preceduto, da Mario Messinis a Giampaolo Vianello e Cristiano Chiarot, perché ognuno di loro ha contribuito alla mia crescita professionale”.
Un passaggio di consegne in nome della continuità, dunque, intesa anche come discontinuità, ovvero “come ricerca e miglioramento dei limiti per coniugare il lavoro quotidiano al raggiungimento degli ideali estetici”.
Quale è il segreto che ha permesso al modello Fenice di raggiungere risultati di eccellenza?
In ogni città bisogna ragionare in modo diverso. Il teatro rappresenta il luogo del DNA della civiltà di cui è espressione. L’ideale sarebbe che tutti i teatri italiani potessero instaurare un’intesa privilegiata con il territorio di cui sono espressione in modo da rappresentarne compiutamente la cultura. Anche se al termine abusato di “cultura” preferisco quello di “spettacolo” che privilegia la dimensione umana, l’impegno continuo da parte di una squadra di persone che lavorano insieme. È questo sforzo individuale e collettivo che crea lo “stile” di un teatro.
I risultati ottimali finora raggiunti alla Fenice nascono proprio da un’interazione costante con il territorio e la cultura di questa città e rappresentano un punto di partenza per nuove sfide. Il teatro veneziano da sempre si è proposto come laboratorio di innovazione e di ricerca, entrambe realizzabili al massimo livello all’interno di una struttura che, grazie alle sue dimensioni, consente produzioni musicali e registiche capaci di coinvolgere intimamente lo spettatore, rendendolo partecipe del processo creativo.
Ma al di là di quello che si svolge sul palcoscenico, venire alla Fenice è una esperienza imperdibile. Oltre che un tempio della musica, è un tempio dell’umanità. Viverlo non rappresenta uno status symbol ma una crescente esigenza dell’anima.
Quale è ora il suo più importante obiettivo?
Mi piacerebbe fare qualcosa di veramente significativo per il teatro, al servizio della città e dell’istituzione. Vorrei innanzitutto migliorare ulteriormente la qualità artistica delle nostre produzioni grazie a un direttore musicale stabile. Questo ci consentirebbe di realizzare un maggior numero di tournée facendoci apprezzare ancora di più a livello internazionale. Inoltre desidero continuare a coltivare la preparazione di tutte le componenti che contribuiscono alla realizzazione dello spettacolo, con particolare attenzione alla recitazione, attraverso la trasmissione generazionale di una tradizione esecutiva di cui sono depositari illustri interpreti del nostro tempo.
Pensiamo per esempio a Leo Nucci, che ha studiato al laboratorio di Spoleto con Giovacchino Forzano, il librettista del Gianni Schicchi, o a Muti, che si è formato con Antonino Votto, braccio destro di Arturo Toscanini, o a Chung, discepolo di Giulini, a propria volta assistente di Victor De Sabata.
Quali saranno i tratti caratterizzanti delle prossime stagioni liriche?
Amplieremo innanzitutto il repertorio. Abbiamo in cantiere alcuni titoli verdiani tra cui Falstaff, Don Carlo e Macbeth e vorremmo riproporre capolavori del Novecento storico come Lady Macbeth, Wozzeck e opere di Janáček, autore che sta diventando ormai un classico. Non dimentichiamo poi che a Venezia la lezione monteverdiana ha lasciato il segno e la trilogia che abbiamo realizzato quest’anno con Gardiner rappresenta solo l’inizio di una valorizzazione del repertorio barocco che riguarderà non solo Vivaldi ma anche altri compositori che hanno contribuito a rendere la città lagunare una centro teatrale unico al mondo.
Non dimentichiamo poi che le regie più innovative di questi anni sono state realizzate proprio all’interno di allestimenti di opere barocche, con intuizioni che sono state poi applicate all’interno di lavori appartenenti ad altri periodi storici. Intensificheremo le collaborazioni con la Biennale, il Conservatorio, lo IUAV, l’Accademia di Belle Arti e l’Università, all’interno di una logica che prevede una sempre più stretta integrazione con il territorio. Inoltre, il progetto di città metropolitana, cui sta lavorando il Sindaco Luigi Brugnaro, consentirà di ampliare i rapporti con il mondo produttivo di tutto il Veneto.
Proseguirete anche nella commissione di nuove opere contemporanee?
Le prime assolute rappresentano un tratto identitario della Fenice e lo coltiveremo, oltre che nell’ambito della Stagione Lirica, anche all’interno della Stagione Sinfonica, la quale continuerà, sulla scia di quella operistica, la riproposizione di grandi cicli del repertorio, indispensabili perché l’orchestra costruisca il proprio suono.
E riguardo alla stagione da camera?
Stiamo sviluppando un nuovo ciclo degli appuntamenti organizzati da Musikamera, cui affiancheremo altre iniziative, come i concerti-aperitivo che coinvolgeranno strumentisti e coristi del teatro.
Avete già avviato collaborazioni con l’Opera di Firenze?
Certo, nella prima stagione realizzata da Cristiano Chiarot è inserita La Sonnambula che abbiamo rappresentato in Fenice nel 2012 con la regia di Giuseppe Morassi. Chiarot è ormai più popolare di Giancarlo Antognoni, a Firenze… Ha iniziato a dialogare con tutte le componenti del teatro e infuso alla struttura un’energia che si riversa anche sulla città.