Intervista a Francesco Libetta: tra Scarlatti e Rap

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Otto del mattino, tiepida domenica di giugno: incontriamo il pianista Francesco Libetta ai Giardini Pubblici di Cagliari dopo il suo concerto en plen air  che si è svolto proprio lì, all’alba, per la X (e ultima, purtroppo) edizione del Festival Leggendo Metropolitano e per gli Amici della Musica. Ne approfittiamo per scambiare due chiacchiere davanti a un caffè.

Questo recital è insolito sotto tanti aspetti, dall’orario alla location. Perché ultimamente si sente quasi l’urgenza di organizzare concerti ed eventi in luoghi diversi da quelli tradizionalmente deputati alla fruizione della musica classica?

I capolavori musicali nascono come macchine che ingenerano interpretazioni e questa spinta propulsiva funziona nei contesti più disparati. Ovviamente per analizzare la struttura di un brano o individuarne tutte le caratteristiche compositive la situazione migliore è neutra, quasi asettica, tale da favorire la massima concentrazione. Ma già il teatro, con il suo velluto rosso, le poltroncine imbottite, i lampadari dorati non è più un contesto neutro perché all’aspetto puramente auditivo è connesso quello sociale e rituale. Dobbiamo riflettere sul concetto di “migliore”: ad esempio, quando si pensa a un quadro di Caravaggio, il modo “migliore” di ammirarne i dettagli e le sfumature chiaroscurali non è di certo nelle chiese nei quali sono spesso collocati i dipinti, con una pessima illuminazione, mentre in un poster tutto è osservabile con precisione e nel dettaglio. Ma si può dire di provare le stesse emozioni? Ecco, per la musica è un po’ la stessa cosa. Ogni ascolto può avere intenti diversi: la ricerca della bellezza, di informazione, di autenticità.  Se ci si vuole muovere con consapevolezza la questione, da apparentemente semplice, diventa un labirinto.

Il rapporto tra fruizione musicale e luogo della fruizione è, dunque, assai complesso. Riguardo i brani proposti, invece? Un programma con brani conosciuti anche grazie a contesti trasversali (pubblicità, colonne sonore) è in grado di coinvolgere maggiormente un pubblico di non addetti ai lavori?

Ci sono molti equivoci e luoghi comuni su questo argomento.  In Costa Rica, nella cittadina di San Ramòn, ho tenuto un concerto in una chiesa piena di gente comune, curiosi, bambini. In una situazione tale non aveva senso eseguire pezzi soltanto cosiddetti “famosi” come, non so, il Mephisto-Walzer di Listz o la Sonata Al Chiaro di luna  di Beethoven per catturare l’attenzione del pubblico, tanto nessuno li conosceva comunque. L’importante era fare pezzi belli, semplicemente: e così mi sono sbizzarrito,  portando anche  trascrizioni di Ignaz Friedman e Castelnuovo Tedesco, apprezzatissime dai presenti.  Costruire un programma “ad hoc” per accattivarsi il pubblico è sempre rischioso, perché chi ti ascolta si accorge se lo tratti come un incapace e si offende mortalmente: non bisogna avere paura e preconcetti ma offrire un prodotto di qualità, come ho fatto per Piano City a Milano (manifestazione gratuita), dove ho suonato tre Sonate di Schubert. Anche qui a Cagliari non sono stato da meno, con le 27 Sonate di Scarlatti (da me scelto anche per l’attinenza col tema della manifestazione, “Tengo famiglia”, vista sia l’importanza della sua famiglia di origine che di quella “d’adozione” dei reali iberici).  Anni fa, ricordo, in qualità di direttore artistico della rassegna musicale di Val di Rabbi, commissionai a Franco Oppo quello che poi sarebbe diventato il suo Secondo concerto per pianoforte e orchestra: la prima, da me diretta, vedeva come solista Pietro De Maria e attirò moltissimi curiosi valligiani, contadini, persone semplici che ascoltarono il brano senza pregiudizi, senza etichette, senza codificazioni superflue.  Era il pubblico che Oppo aveva sempre desiderato e, forse non a caso, il suo brano piacque moltissimo, nonostante la musica contemporanea sia raramente proposta a un pubblico vasto perché considerata di difficile comprensione. A breve uscirà anche la registrazione di quella serata, in un CD prodotto dalla Nireo [la casa discografica da lui fondata, n.d.a.].

Un’ultima domanda. Da poco ti sei schierato nella diatriba sorta dopo la decisione del Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce di istituire una masterclass in canto rap: e, per alcuni sorprendentemente, ti sei schierato a favore. Puoi spiegare il perché?

C’è una tendenza da parte delle persone alla semplificazione: e, proprio per questo, si è inteso il rap come se fosse pop, ma bisogna tenere distinte le due correnti. Mentre il pop parla di temi generalizzabili e cantabili da chiunque, come una delusione d’amore, nel rap la verità e l’autenticità sono alla base della creazione artistica. Mi spiego: un rapper che parla della galera o della vita in quartieri difficili non può essere cresciuto nella bambagia ma deve incarnare il messaggio che veicola in maniera coerente. Trovo tutto ciò eticamente straordinario e meritevole di studio; l’importante è non fare certe operazioni solo per strizzare l’occhio ad un certo tipo di target che si vuole coinvolgere, ma tenere sempre in primo piano la valenza culturale e musicale del progetto.

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