Quando si trova ad adattare per il grande schermo il romanzo di Patricia Highsmith, Anthony Minghella lascia subito la propria impronta, osando un cambiamento: il personaggio di Dickie Greenleaf, con il volto di Jude Law, nel suo film non sarà un pittore, bensì un patito di jazz.
La musica diventa così fulcro dell’opera, tra improvvisazione e ineffabilità, edonismo ed ebbrezza. In più, fin dalle prime scene, proprio questo genere si contrappone alla vocazione per la musica classica, in particolare l’opera, del protagonista Tom Ripley, interpretato da Matt Damon.
Sulla pellicola, il risultato non può che tradursi in un susseguirsi e contrapporsi di melodie, tra le quali spiccano brani di (in ordine alfabetico) Miles Davis, Dizzy Gillespie e Charlie Parker. Non mancano le composizioni originali di Gabriel Yared, già al lavoro, appena un paio di anni prima, con Minghella in un altro monolito della cinematografia, “Il paziente inglese”.
Così, le citazioni musicali accompagnano il film a uno dei momenti topici, quando dal sole di Ischia la scena piomba in un fumoso jazz club napoletano, dove i protagonisti, da appassionati ascoltatori, diventano essi stessi interpreti su un palco: Law e Damon, accompagnati da Fiorello e dal Guy Barker International Quartet, si esibiscono infatti in “Tu vuò fà l’americano” di Renato Carosone. E scatta qui il connubio tra i due, la resa al piacere e la vittoria della tentazione.
Per l’intero film, mentre Yared si occupa di questo collage musicale, compone anche una melodia su cui Minghella stesso scrive dei versi e che inaugura il film, animandosi con la voce di Sinéad O’Connor, “Lullaby For Cain”.
L’album ha ricevuto nomination a Oscar, Golden Globe e BAFTA ma ha sempre perso le statuette a favore di altri film: rispettivamente, “Il violino rosso”, “La leggenda del pianista sull’oceano” e “American Beauty”.