Ho avuto l’imperdibile occasione di partecipare a un tour degli ApuliaCelloSoloists con Giovanni Sollima. L’ho incontrato nella hall di un albergo a Matera poco prima del concerto e mi ha parlato della sua Palermo, del Sud e dell’importanza dell’impegno sociale per un musicista. Questa la sua intervista.
Sei concerti consecutivi in sei stupende località pugliesi e lucane. In che modo il luogo in cui si suona e il suo pubblico possono influire su una performance musicale?
Direi totalmente. C’è un rapporto strettissimo, anche perché sono convinto che i luoghi siano fatti dalla gente. La potenza delle persone supera qualsiasi forma di contemplazione della stessa bellezza del luogo. Ho meno attrazione per un luogo bello ma privo di segni, di solchi lasciati dall’essere umano. Nel bene o nel male: da bambino sono cresciuto in una città sfregiata e ferita, piena di pietre che parlavano, di macerie, di polvere. Suonando qualsiasi forma musicale col mio violoncello, che diventa un altro corpo, un’altra entità, io sono partecipe di una comunicazione a tutti gli effetti perché arriva un feedback dal pubblico. Il luogo sicuramente contribuisce con la sua bellezza o con la sua bruttezza – nel caso di questo tour con la sua bellezza – ed entra a pieno titolo a fare parte di una triangolazione di comunicazione e di espressività allo stato puro.
Qui in Puglia sei stato il maestro concertatore della Notte della Taranta. Cosa significa per te la pizzica? E che valore può avere oggi questa danza eterna?
La pizzica, come altre forme musicali che risiedono in questa parte grico-salentina, mi suona molta familiare. Da siciliano ho molta di questa materia sonora radicata in me. La cosa bella è essermi trovato ad affrontare per due anni consecutivi alla Notte della Taranta un numero quantitativamente e qualitativamente incredibile di brani che oserei definire dei reperti, perché ritrovati su registrazioni fatte dagli etnomusicologi del passato. E lì significava entrare in relazione con quel materiale per costruire un brano che fosse centrifugo come una pizzica. Un brano di una forza sciamanica. La cosa che mi ha colpito è stata affrontare centinaia di volta una sorta di rituale attorno a un micro componimento di una manciata di note bellissime. Se c’è qualcosa di simile tra Siracusa e Santa Maria di Leuca è il mare che ha mandato, rimandato, lanciato e ricevuto segnali.
Spesso nei tuoi concerti dici che “i Sud del mondo si assomigliano tra loro”. Quali sono secondo te le caratteristiche più importanti della musica del Meridione?
In realtà è vero. In qualche modo lo diceva anche padre Komitas assieme ad altri etnomusicologi dell’ambiente. La linea melodica o il diagramma di un canto popolare non sono altro che la superficie sonora di una lingua, di un dialetto. Se fai un giro per i Balcani la lingua è simile e la musica si somiglia. Se parli il croato parli anche il serbo e il bulgaro. La musica ungherese, ad esempio, ha una particella ritmica con sedicesimo e ottavo puntato che puoi trovare in Haydn, Kodály, Bartók e Ligeti ma che nasce dalla musica popolare. Mi dicevano che per gli ungheresi quella cellula vuol dire: «màma». La stessa cosa accade per l’Australia, un Sud del mondo borderline. In generale la musica del sud ha un movimento melodico molto familiare.
Per un musicista quanto dev’essere importante l’attenzione costante ai problemi sociali?
C’è chi ha questa immagine del musicista tutelato che lavora in una sfera, e della musica come atto sacro ma scollegato dal mondo. Questo non ha mai fatto parte del mio modo di agire. Sono cresciuto a Palermo e ho passato l’infanzia e l’adolescenza lì. Da bambino era una città invivibile. Nemmeno la polizia ci andava perché era il Bronx barocco d’Europa, ma era anche molto affascinante. C’è una frase del Di Lampedusa che trovo tanto poetica quanto insopportabile: «bisogna cambiare tutto per non cambiare niente». Da questo io ho preso le distanze, come molti palermitani. Bisognava Schierarsi: «io sto qua, tu sei mafioso». Quando cresci in queste situazioni diventa quasi inevitabile che ci sia una musica dell’impegno. La musica è un fatto sociale perché può lanciare dei segnali molto forti, può unire e innescare riflessioni senza rischiare la retorica delle parole.
Immagine di copertina: Francesco Ferla