Il Cinema ritrovato: le aporie della filologia cinematografico-musicale

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Torniamo una volta ancora sul Festival “Il Cinema ritrovato” 2017 per proporre al Lettore un altro ordine di riflessione. Ce ne dà lo spunto una delle produzioni meglio riuscite tra quelle della rassegna qui sopra menzionata. Ci riferiamo alla proiezione di Addio giovinezza!, film di Augusto Genina del 1918, per il quale il compositore bolognese Daniele Furlati ha confezionato una partitura originale. La musica è stata eseguita dal vivo, in accompagnamento alla pellicola, da parte in un ensemble formato dallo stesso Furlati al pianoforte, Frank Bockius alla batteria, Filippo Orefice al clarinetto, sax tenore e flauto traverso.

Accanto alla raffinatezza dell’accompagnamento musicale, tra i più pregevoli che questa edizione del Festival abbia proposto, ha costituito un non secondario motivo di interesse per studiosi e appassionati del cinema muto la scelta di proiettare il film, nella raccolta e intima atmosfera della Piazzetta Pasolini in Bologna, con uno storico proiettore ad arco a carbone, un modello Wench AA del 1900 circa (si vedano le foto qui sotto). È una scelta che risponde a una sorta di preoccupazione archeologica: il recupero del passato del medium cinematografico, inteso non solo come ricostruzione dei testi filmici, ma anche come rievocazione di un’autentica performance in quella che si potrebbe chiamare una “proiezione filologica”.

La visione di un film con un proiettore a carbone rappresenta, per varie ragioni, un’esperienza estetica suggestiva e straniante. Anzitutto per la velocità della riproduzione fotografica, sensibilmente inferiore a quella a cui possiamo dirci tutti abituati (e forse assuefatti). Ma soprattutto, ci viene da dire, per via del ronzio che fa sottofondo alla proiezione; un vero e proprio bordone, che si staglia però in primo piano nelle pause o nei punti di riposo della musica. Ecco, la musica appunto! Non c’è manuale di storia della musica per film che non riporti la ben nota tesi secondo la quale la componente musicale sarebbe stata introdotta nelle sale cinematografiche (anche e soprattutto) per coprire il fastidioso ronzio del proiettore. Di questo assunto scolastico ci è dato ora di fare esperienza diretta.

Non possiamo nascondere in effetti come a questa applicazione d’archeologia mediale si accompagni una serie di scomodi interrogativi. A volerli formulare tutti, si rischia la deriva ad absurdum. Potremmo cominciare col chiederci perché riproporre il conflitto percettivo fra la musica e i rumori di proiezione a un pubblico cresciuto alla scuola del dolby surround. E poi: perché pregiarsi di un restauro della pellicola, condotto secondo le più avanzate e sofisticate tecniche digitali, per poi affidarne la proiezione a uno strumento che di quelle tecniche nulla sa? E, più in generale: perché fare ritorno all’inevitabile inesattezza e approssimazione di una esecuzione dal vivo, quando si dispone della tecnologica necessaria e sufficiente a realizzare una perfetta sincronizzazione tra la sfera acustica e la banda visiva? Ci fermiamo qui, ma potremmo andare avanti.

La “proiezione filologica”, a ben vedere, solleva molti più problemi di quanti non ne risolva, per il semplice fatto che a quell’autenticità della performance si accompagnano – e non potrebbe essere altrimenti – quelle medesime problematicità che erano biasimate dalla critica e dal pubblico dell’epoca e che, storicamente, sono state il motore della rapidissima evoluzione tecnica del cinema nel corso del Novecento. Tutto ciò, sia ben detto, nulla toglie alla legittimità di un’archeologia mediale, né all’appeal di una tanto suggestiva e per noi inedita esperienza estetica. Ma è proprio qui che risiede, a parere di chi scrive, la chiave di lettura di una tale operazione: non la volontà di ripristinare un segmento, di per sé irripetibile, del passato remoto del medium cinematografico, bensì quella di offrire qualcosa di assolutamente nuovo al pubblico del ventunesimo secolo. Del passato del cinema ci attira insomma quanto di esso è per noi nuovo, sperimentale, paradossalmente “inedito”. Se il passato del cinema altro non è che il nostro presente, dobbiamo prendere atto che non c’è nulla di più radicato nel gusto e nella sensibilità dell’età contemporanea di una “proiezione filologica” con un proiettore a carbone di oltre un secolo fa.

Foto Ph. Lorenzo Burlando

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