Il capolavoro ritrovato di Nina Simone, tra jazz e Bach

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Un disco apparso come una meteora, perduto e poi ritrovato. Che ora riemerge, per la seconda volta, dagli archivi. È «Fodder on My Wings» di Nina Simone. E, a diciassette anni dalla scomparsa della geniale musicista, questo lavoro ci costringe – ma è una costrizione assai piacevole – a parlare nuovamente del talento eccentrico e capriccioso della diva. Registrato nel 1982, poco tempo dopo il trasferimento dell’artista a Parigi, è uno dei dischi da lei più amati. E tuttavia è anche tra quelli meno conosciuti. Un’orgia di suoni, con vertiginosi cambiamenti di ritmi e atmosfere. Ricco di canzoni autobiografiche tra jazz e soul, folk, gospel e ritorni a Madre Africa. Uscito nel 2015 per la prima volta in cd su Sunnyside (solo per il mercato statunitense, però), oggi l’album viene ripubblicato dalla prestigiosa etichetta Verve in questo formato, ma anche in vinile e in digitale, sia streaming sia download. E, ai dieci brani dell’ellepì originale, vengono aggiungi tre pezzi rari, che fanno parte di una seduta francese del 1988. Tra questi uno struggente rap dedicato alla morte del padre e modulato sulle note di Alone Again (Naturally), hit del cantante britannico Gilbert O’Sullivan.
Eunice Kathleen Waymon – questo il vero nome della musicista, che poi lo cambiò per rendere omaggio all’attrice Simone Signoret, di cui era grande ammiratrice – avrebbe voluto diventare pianista classica ed essere la prima concertista di colore. E invece, vittima del razzismo dell’America profonda, dovette rinunciare al progetto. Divenne così una figura-simbolo della musica e della cultura nera. Senza mai dimenticare Bach e Chopin, spesso evocati nelle sue travolgenti cavalcate pianistiche. Arrivò lo stesso alla Carnegie Hall di New York – all’epoca tempio della musica accademica – ma non suonando brani classici. Anche se nel live «Nina Simone at Carnegie Hall», che riproduce la sua strepitosa performance del 12 aprile 1963, fece un tributo all’amato Saint-Saëns, eseguendo Theme from Samson and Delilah. Una sorta di rivincita postuma nei confronti dei suoi detrattori.
Oggi l’eredità di Nina è stata raccolta, almeno in parte, da una giovane musicista: Kandace Springs. In «The Women Who Raised Me» (Blue Note, distribuito da Universal) – suo terzo album, il primo di sole cover – trova posto anche I Put a Spell on You, classico di Screamin’ Jay Hawkins che la Simone rilesse in una versione da brivido, fortemente drammatica. Ebbene la ragazza di colore con l’acconciatura “afro” stile Angela Davis, pianista e vocalist di formazione classica pure lei, ce la restituisce con ammirevole originalità senza smarrirne l’intensità emotiva. E anche il resto del disco della protégé di Prince – prodotto da una vecchia volpe della discografia come Larry Klein, talent scout per eccellenza di voci femminili – è all’altezza. Non solo perché impreziosito dai cammei di jazzisti “doc”, da Chris Potter ad Avishai Cohen e a Christian McBride. Ma anche per la scelta del repertorio, che ne fa un lavoro particolarmente sentito. Un affresco in cui la sensuale cantante del Tennessee – voce calda e densa di chiaroscuri – desidera pagare un debito di riconoscenza alle figure femminili che l’hanno fatta crescere sul piano musicale e umano. Da Sade (con la ripresa di Pearls) a Dusty Springfield (What Are You Doing the Rest of Your Life) fino Roberta Flack (la rilettura tutt’altro che usuale di Killing Me Softly with His Song). Un gran bel disco di black music, insomma.

Ivo Franchi

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