L’etimologia di “università” deriva dal latino universĭtas, «totalità, universalità», che a sua volta origina da universus, «tutto intero». Nel mondo universitario attuale (o almeno nella realtà berlinese), in cui si frequenta un seminario con pochi compagni, su un tema specifico della materia che si studia a un istituto di una facoltà che fa parte della grande Università, questo aspetto di «totalità» rischia di perdersi. Nella specializzazione che caratterizza sempre di più gli atenei europei, l’includere di diverse discipline, così come di personalità e discorsi che vadano oltre agli antistanti studenti e docenti, viene spesso tralasciato, permettendo agli universitari di limitarsi al proprio sapere di “nicchia”. Ogni tanto però, un formato inusuale, una lezione più sulla realtà che sulla teoria, una discussione viva, sono in grado (e in dovere) di aprire le porte di aule e menti e di attualizzare “l’universalità” dell’Università.
Uno di questi casi di “apertura” è avvenuto domenica 3 dicembre all’Istituto di Musicologia e Mediologia della Humboldt Universität zu Berlin. In una serata segnata dalla prima neve di Berlino, il giornalista e autore inglese Simon Reynolds (nella capitale tedesca anche per la presentazione del suo ultimo libro tradotto in tedesco, Shock and Awe: Glam Rock and Its Legacy) si è unito alla redattrice della rivista femminista “Missy Magazine” Sonja Eismann e al docente e autore Bodo Mrozek, per discutere ed esplorare l’azione che li accomuna: scrivere (su, di) musica. Guidati dalla musicologa e dj Stefanie Alisch, i tre ospiti si sono immersi in un dialogo che ha toccato diversi aspetti di questo tema, intrattenendo e infine coinvolgendo il pubblico, composto soprattutto da studenti.
Cosa succede quando si scrive di musica (popolare)? Che compiti si pone l’autore? Come si definisce il giornalismo musicale? Quali ostacoli e obiettivi ha un buon articolo?
Prendendo spunto da queste e altre domande, le risposte, i racconti e le opinioni personali dei tre interlocutori hanno creato un’immagine verosimile e ricca di sfaccettature del giornalismo musicale pop attuale. Per Simon Reynolds, ad esempio, scrivere una recensione di un album può essere considerato un «processo digestivo», che dopo una necessaria fase di procrastinazione lo occupa tutta la notte. Un giornalista musicale, nel momento in cui scrive e pubblica un proprio testo, diventa egli stesso «performer», «si trova sul palco» e deve rendere il proprio lavoro interessante e piacevole da leggere. Per raggiungere questo risultato ed «incuriosire il lettore», Sonja Eismann sottolinea l’importanza del tempo che ciò comporta: «Per poter scrivere su una band o un pezzo, innanzitutto devi interessarti in prima persona alla musica in questione. Devi trovare una tesi e un’idea che ti faccia ardere.» Bodo Mrozek invece, vede il compito di un giornalista musicale come una «impossible task», un «lavoro impossibile», dal momento in cui si tratta di comunicare tra due realtà diverse. Per lui il giornalista è una specie di artigiano, capace di andare oltre al significato musicale e tradurlo in parole. Parole che siano comprensibili da un pubblico eterogeneo. Infatti, nonostante ogni pubblicazione abbia il proprio «palco, tono e pubblico», la cosa più stimolante e allo stesso tempo difficile secondo i tre autori è creare un linguaggio che parli sia agli intenditori, sia al lettore più inesperto.
Alla domanda su un termine particolare che ha segnato la propria carriera, Simon Reynolds non può che rispondere con la parola «retromania», che funge da titolo al suo bestseller del 2010 (Retromania: Pop Culture’s Addicition to Its Own Past) e ha lasciato un segno nella storia della musica pop. Sonja Eismann chiama in causa il «pop-feminism», vocabolo usato in Germania negli anni ’90 e introdotto negli USA solo nel 2013 con Beyoncé, attraverso il quale si analizzano scene musicali in relazione ai gender studies e alla sociologia. Bodo Mrozek rilancia la domanda, sostenendo che «per i giornalisti musicali è molto più interessante distruggere termini, dal momento in cui sono in contatto con più lettori e più potere rispetto ai normali musicologi». Il tema del “potere” si collega velocemente al significato del giornalismo musicale attuale e alla sua possibile crisi. In una realtà nella quale tutti hanno i mezzi per scrivere e raggiungere lettori da tutto il mondo, in cui il compenso per la scrittura è sempre più spesso di valore simbolico e dove i giornalisti devono essere “opportuni” e quindi le recensioni con un vero carattere critico scarseggiano, la domanda che Mrozek pone al pubblico («How important is pop music journalism for you?») è più che legittima.
Dopo quasi due ore di risposte, opinioni, aneddoti personali e curiosità che Reynolds, Eismann, Mrozek e Alisch regalano al pubblico, le domande che rimangono aperte sono tante, così come la voglia di avvicinarsi di più a questo mondo e farne parte. Una cosa però è certa, nell’atmosfera che profuma di Glühwein (vin brulé) accompagnata dalla musica del dj Marc Weiser, si percepisce soprattutto la soddisfazione e l’ottimismo degli organizzatori (Dahlia Borsche, Fabian Holt e il gruppo di rappresentanti degli studenti dell’Istituto) nella consapevolezza di aver contribuito a rendere l’Università un vero luogo di scambio un po’ più “universale” rispetto alla solita biblioteca.