Da ormai sette anni Piano City popola Milano di pianoforti per un fine settimana. Le tastiere invadono i luoghi storici della città, i suoi giardini, le sue vie e le sue piazze, persino le abitazioni dei privati cittadini. È una festa di musica che, mai come quest’anno, ha coinvolto tutto il capoluogo anche nelle sue zone più periferiche e si è allargata ai confini della provincia e oltre. Probabilmente il premio alla location più suggestiva di Piano City va al lungolago di Como, in un duello all’ultimo voto con il concerto all’alba domenicale di Pol Solonar all’Idroscalo.
Ho seguito la domenica conclusiva, costruendo, come tanti altri, il mio personale Piano City, affidandomi ai mezzi di trasporto pubblici, al bike-sharing e ai miei piedi alla scoperta di una Milano a ottantotto tasti. Il mio percorso si è snodato lungo le vie del centro, con qualche puntata sulla periferia. La scelta primaria è stata di privilegiare i concerti diffusi, lungo le strade e i cortili, nella convinzione che in questi luoghi risieda la magia più autentica della manifestazione, quella capacità di attrarre i passanti ignari e meno interessati all’arte pianistica: gli affrettati milanesi impegnati nello struscio domenicale – andà a strüsa, come si diceva una volta – mentre si imbattono per caso in pianisti che hanno calcato i palchi di tutto il mondo esibirsi come artisti di strada.
È quanto accaduto nella lussuosa via della Spiga, uno dei lati del famoso Quadrilatero della moda: già alle 10 del mattino le Rossini variations di Mario Mariani attraggono un notevole capannello di spettatori, in larga parte passanti incuriositi dal suo stile comico-virtuoso e dal suo pianoforte preparato con i più disparati oggetti: il rullante sulla cordiera risuona al ritmo di una pimpante marcetta, il tamburello sottolinea le tarantelle, mentre catenelle di ferro donano al pianoforte un sonorità da mandolino. Sono espedienti con cui Mariani espande il timbro dello strumento fino a quello di un’orchestra: le biglie strofinate sulle corde, come una slide guitar, generano sonorità morriconiane e il Duetto buffo di due gatti non sfigurerebbe in un western di Sergio Leone. Pochi metri più avanti lungo la via suona Hélène Berger: pianista di stampo classico e jazz, si esibisce nella commistione dei due generi sulla scia di Debussy e Bill Evans. Il suo tocco posato e riflessivo forse poco si addice alla situazione specifica, ma in questo contesto appare insensato giudicare la tecnica. Meglio concentrarsi sulle reazioni del pubblico: gente rapita, affascinata da un pianoforte in mezzo alla strada. Spesso i passanti interrompevano i loro discorsi non appena udivano le prime note da lontano, numerosissimi i cellulari a riprendere ogni istante: c’è chi li considera una degenerazione dei tempi attuali, forse sono più semplicemente un tentativo di eternare un momento piacevolmente fugace.
Di poco più informale la situazione al Castello Sforzesco, durante la maratona in onore di Schubert. Il Portico dell’Elefante non è frequentato da spettatori casuali come via della Spiga, il pubblico appare attento e preparato. Chiuso sui tre lati, permette di direzionare il suono meglio di un vicolo, così il tocco leggiadro di Maria Clementi risuona fin oltre il limitare del cortile, nonostante le grida e il vociare provenienti da altre manifestazioni concomitanti. Gli spettatori si godono il sole di mezzogiorno mentre nelle orecchie risuona un’agile e al tempo stesso tenera interpretazione della Sonata in la maggiore D664.
Ancora più attento è il pubblico recatosi alla Fondazione Prada per assistere al concerto di Emanuele Torquati. Il pianista collabora con il programma di Radio3 Lezioni di Musica, e si nota: ha condotto una sorta di lezione-concerto dedicata a Ferruccio Busoni e Charles Tomlinson Griffes, due figure che oggi appaiono in po’ obliate, almeno per quanto riguarda la loro attività compositiva. Anche per questo motivo è lodevole la sua scelta di evitare le celeberrime trascrizioni bachiane di Busoni per concentrarsi sulle opere originali ed evidenziare le affinità e i debiti, non solo stilistici, che Griffes aveva con il grande genio empolese. Sobrio ed essenziale, Torquati non indulge in orpelli atti a compiacere il pubblico, mettendosi al servizio dei compositori: la Piano Sonata di Griffes, con il suo insistere sul registro grave e sulla continua varietà del materiale tematico, ricorda una versione oscura di Debussy e meriterebbe certamente maggior fortuna. Su quello stesso pianoforte poco prima aveva suonato Enrico Intra, perso per un soffio. Non volendo rinunciare al fascino del piano jazz, torno in zona Brera, dove nel cortile della Fondazione Adolfo Pini assisto alle esibizioni di Alberto Forino. Piano City è anche questo, la possibilità di cambiare in corsa il proprio programma personale.
Il jazzista bresciano costruisce il suo stile eterogeneo a partire dalle grandi arcate improvvisative à la Keith Jarrett (d’altronde è impossibile evitare il confronto in questo genere) mescolate a un jazz minimale e spunti bebop, il tutto unito da un abile uso di scale esotiche per creare un pot-pourri musicale molto interessante, seppur alla lunga un po’ dispersivo: la difficoltà di queste operazioni è solleticare a lungo l’attenzione del pubblico, con il rischio per il pianista di girare a vuoto alla ricerca di uno spunto valido da sviluppare.
Sempre sul lato jazz, frammisto ad elettronica minimal è la proposta di BASE: negli spazi dell’ex officina Ansaldo, in coabitazione con i laboratori del Teatro alla Scala e il MUDEC, questo luogo si è posto fin dalla sua inaugurazione come uno dei poli culturali più freschi e innovativi del milanese. Per Piano City ospitano uno dei concerti (e degli ensemble) più bizzarri della rassegna, un quintetto composto da un pianista e quattro disegnatori dall’esplicativo nome di Matita. Il suono di matite e pennarelli mentre tracciano la carta è amplificato ed elaborato tramite potenziometri e sintetizzatori diventando gli interventi solistici che si sviluppano su un tappeto di pianoforte o di Fender Rhodes con il suo caratteristico sound. La struttura dei pezzi, così come la composizione del quintetto è a tutti gli effetti quella della classica band: ci sono il pennarello-batteria e la matita-contrabbasso a tenere il tempo e dettare il groove, matita-soprano e matita-contralto si spartiscono gli assoli; il tutto ripreso e proiettato in tempo reale, una partitura pollockiana che si svolge nel momento stesso in cui è scritta.
È tempo ormai di convergere verso il centro della rassegna, il cuore da cui tutto si è diramato: i giardini di villa Belgiojoso-Bonaparte che oggi ospitano la Galleria di Arte Moderna. Qui la pioggia ha quasi avuto il sopravvento: solo poche centinaia di irriducibili assistono al concerto di Asli Kiliç, molti altri preferiscono approfittarne per prendere una pausa in attesa del clou della serata. Peccato perché la tedesca sfodera un programma tutto dedicato al romanticismo senza risparmiarsi: i due Notturni op. 62 di Chopin, si rivelano particolarmente adatti alla situazione uggiosa, nonostante la resa un po’ troppo robusta e i tempi un po’ accelerati. Un’interpretazione nerboruta più adatta allo Skrjabin del Verse la flamme, con il suo crescente accumularsi di note via via sempre più dense.
L’ultimo giro di piano è per Vinicio Capossela: non un pianista, come lui stesso ammette, ma un semplice amatore. Curvo sulla tastiera, suona sommesso le sue canzoni in una veste inedita per piano-solo che le rende quasi irriconoscibili. Eppure c’è qualcosa di inspiegabile nel modo in cui le sue note rapiscono il pubblico, attentissimo, a cui non viene concesso per tutta l’ora del concerto un momento di pausa per applaudire. Forse sono tutti in attesa di uno dei suoi tipici guizzi o di uno dei suoi lazzi verbali, ma non ne arriveranno. Sul finale salgono sul palco i docenti della Civica Scuola di musica Antonia Pozzi di Corsico (che due anni fa lottarono e vinsero contro la privatizzazione imposta dal comune) per accompagnare il cantautore con i toy-piano di Michael Nyman. Suonano – e non a caso è l’unica che viene cantata – I pianoforti di Lubecca, tenera storia d’amore tra un vecchio Duysen e una femmina di Blüthner dalle gambe ben tornite. Sulle sue note si chiude una giornata emozionante, mentre mi chiedo che cosa mi abbia lasciato questa edizione di Piano City.
Un senso di stupore, anzitutto, dovuto alla consapevolezza che per costruire un festival del genere occorra una gigantesca macchina organizzativa da smuovere; la conseguente ammirazione per il coraggio di chi questa macchina la mette in moto da ormai sette anni; la frustrazione per non possedere il dono dell’ubiquità che mi avrebbe permesso di assistere a molti più concerti di quanti sono effettivamente riuscito; l’esaltazione per aver conosciuto artisti notevoli che riserveranno grosse sorprese in futuro; il ricordo del bambino in punta di piedi appeso al bordo per scrutare nella pancia del pianoforte mentre Hélèn Berger concentrata suona Ravel, l’immagine che ai miei occhi sintetizza meglio lo spirito di Piano City. Infine, una rinsaldata fede nella magia della musica: centomila visitatori complessivi accorsi ad assistere a più di 500 pianisti in 470 concerti sparsi tra più di 150 località di Milano e una trentina nell’hinterland. E la consapevolezza che tale offerta sia comunque inferiore alla vastità della domanda: le prenotazioni, obbligatorie per il fascinoso piano-tram dell’ATM, per gli house concert e alcuni dei city-concert nei luoghi più “in” del milanese, sono andate esaurite nel giro di pochi giorni, ciononostante innumerevoli persone si sono presentate nella flebile speranza di trovare un posto liberatosi all’improvviso. Insomma: Milano ama il pianoforte. E di tutto il repertorio di Capossela, non si poteva scegliere canzone più appropriata per chiudere questa colossale manifestazione d’amore.