Eppur si muove… A poco a poco e nonostante i grossi problemi creati dall’emergenza sanitaria, in Italia la scena della musica live riprende vita. E, sia pure con tutte le limitazioni del caso, stupisce positivamente il cartellone del Torino Jazz Festival, messo in piedi dai due direttori artisti Diego Borotti e Giorgio Li Calzi: dieci giorni per altrettanti concerti di qualità in programma tra il 21 e il 30 agosto, più una seconda parte a ottobre che prevede una trentina di appuntamenti spalmati nei club del capoluogo piemontese (per i dettagli, www.torinojazzfestival.it). Una nota di merito. La kermesse sabauda è tra le poche della Penisola ad allineare un cast che, insieme ai nostri big – Enrico Rava in coppia con Gianni Coscia, Paolo Fresu accanto a Daniele Di Bonaventura, Roberto Gatto e Francesco Cafiso, solo per citarne alcuni –, ospita pure musicisti di altri Paesi: tra questi una star della batteria come il francese Manu Katché, già collaboratore di Sting, Joni Mitchell e Jan Garbarek.
Merita attenzione anche la prima serata della rassegna con il Glocal Report Quartet del sassofonista e clarinettista sardo Enzo Favata. Nel gruppo milita il contrabbassista e chitarrista Danilo Gallo. Un artista trasversale, che ama l’avanguardia (ha lavorato con Marc Ribot, Wayne Horvitz e Mike Patton) e vanta partnership colte (Uri Caine, Alexander Balanescu). Il suo più recente progetto discografico insieme alla band Dark Dry Tears s’intitola Hide, Show Yourself. Lo pubblica Parco della Musica e lo distribuisce Egea. Si tratta di un collage degli amori musicali del leader: echi della scena downtown di New York, momenti grunge e punk, abbandoni lirici e malinconie, improvvisazioni libere grazie al gioco intrecciato dei sax di Francesco Bigoni e Massimiliano Milesi. Dietro la batteria c’è Jim Black, una garanzia.
Altri due bassisti nostrani da tenere d’occhio sono Jacopo Ferrazza (Theater, su Cam Jazz, è il suo nuovo cd) e Michelangelo Scandroglio. Di quest’ultimo, un ventenne che promette bene, è uscito per la Auand Record il notevole In the Eyes of the Whale: un disco che lo fotografa accanto a talenti made in Italy – tra cui il pianista Alessandro Lanzoni – e amici americani famosi, come il sassofonista Logan Richardson.
Giovani e veterani. Va per gli ottant’anni una leggenda del jazz: Steve Swallow. Il maestro del New Jersey è stato tra i primi a passare dal contrabbasso allo strumento elettrico. E si è inventato uno stile inconfondibile, lontano mille miglia da quello muscolare e fracassone di certa fusion. Al contrario il suo è un timbro gentile e delicato, fluido, elegante e suadente. Accompagnatore sensibile (accanto a Jimmy Giuffre, Stan Getz, Paul e Carla Bley, Joe Lovano e Pat Metheny) e solista di prim’ordine, il nostro è anche un compositore di assoluta rilevanza. Per questo l’amico chitarrista John Scofield gli ha dedicato un album-tributo: Swallow Tales (Ecm, distribuzione Ducale). Con lo stesso Steve e con il suo batterista di fiducia Bill Stewart – un trio super collaudato e di alto lignaggio – il musicista dell’Ohio rilegge i classici del bassista suo mentore, che fin dai Seventies ha creduto nell’allora ragazzino emergente della sei corde. Ascoltate Hullo Bolinas – tra i tanti temi di Swallow entrati nel Real Book, un valzer leggiadro dall’andamento felpato e dal fascino elusivo – oppure la ballad Away: l’impressione è che ci siano due sei corde a suonare, tale è l’approccio da chitarrista e fine melodista di Steve. Musica che è un balsamo per le orecchie e per l’anima.
Ivo Franchi