L’uno romantico e scapigliato; l’altro demoniaco e tenebroso, ma capace di capire le folle. Ecco un confronto tra Beethoven e Paganini: due modi di concepire il violino
È probabile che molti appassionati della musica di Beethoven abbiano presente il ritratto del compositore conservato al Wien Museum. Lo realizzò, olio su tela, Willibrord Joseph Mähler attorno al 1804-1805. Secondo le parole dello stesso pittore «Beethoven è rappresentato, quasi a figura intera, seduto; la mano sinistra regge una lira, la destra è distesa, come se in un attimo di entusiasmo musicale, battesse il tempo; sullo sfondo è raffigurato il tempio di Apollo».
Siamo ovviamente all’aperto, in una natura invadente e incolta. L’albero alle spalle del musicista ha una fisionomia bizzarra, quasi capovolta: un tronco, più che un ramo, si erge verso l’alto, spezzato. Il paesaggio è avvolto da una nebbia densa, nordica. Il cielo è minaccioso e Beethoven, dominato da un pensiero musicale, sembra si stia alzando di scatto dal posto in cui è seduto. Guarda negli occhi l’astante, quasi ripetendo nella mente le parole di una sua lettera di quattro anni prima: «Voglio afferrare il destino alla gola, non riuscirà di certo a piegarmi totalmente».
Il vento scompiglia il neoclassico taglio dei capelli alla Bonaparte. Sul fondo, dietro a due cipressi affiancati, gli algidi resti delle architetture classiche del tempio sono aggrediti da una natura sconvolta dall’imminente tempesta, da un improvviso movimento, dal cambiamento, dalla passione, dall’inquietudine di un’anima, dalla determinazione.
Il triennio geniale di Beethoven
Per il Beethoven ritratto nel dipinto, il 1805 veniva a chiudere un triennio di creazione feroce e geniale – aperto dal Testamento di Heiligenstadt (6 ottobre 1802) – che aveva visto l’abbozzo, l’impostazione o la definizione di una serie di capolavori assoluti. Tra di essi: i Concerti per pianoforte e orchestra n. 3 e 4; il Triplo Concerto; la Sonata per violino e pianoforte “Kreutzer”; l’Oratorio Cristo sul Monte degli ulivi; le Sinfonie n. 3, 4 e 5; i Quartetti opera 59; le prime due versioni dell’opera Leonore; le Sonate per pianoforte opera 53, 54 e 57.
Un triennio che introduceva il 1806: anno che avrebbe visto nascere il Concerto per violino op. 61.
La tela di Mähler non solo ci trasmette il volto del trentacinquenne Beethoven che ideò le suddette opere. È anche capace di andare oltre, per diventare emblema di un nuovo sentire che s’impone alla classicità, di un momento di cambiamento epocale. Proponendosi anche come traduzione visiva, spunto sensitivo e chiave di lettura.
La sordità
Il musicista iniziò a subire la sordità a 26 anni (nel 1796), se non forse da molto prima. Divenne totalmente sordo a 45 (nel 1815). È facile immaginare quanto questa malattia abbia influito sulle sue relazioni sociali, sulla sua solitudine, sulla sua professione, sulla concezione delle sue musiche, sul suo rapporto con la Natura. Nel maggio 1810, così scrisse al suo compagno d’infanzia Franz Wegeler: «Da un paio d’anni ho smesso di vivere relativamente in pace e serenità, essendo stato trascinato a forza nella vita della società».
Il musicista aveva trovato nell’amore per la Natura un modo per alleviare i dolori della sua solitudine e della sua malattia. Negli anni successivi, non desiderò altro che di poter lasciare la città e di passeggiare nei boschi e nei campi della campagna nei dintorni di Vienna o di uno dei suoi luoghi di soggiorno estivo.
La Natura come tramite per l’infinito
Per Beethoven giungere in campagna rappresentava una liberazione da tutte le pastoie personali, sociali e professionali della vita in città. Per Beethoven, dalla comunione con la Natura passava la creazione di una musica che fosse pace interiore e salvezza personale. L’elemento “pastorale” riduceva le differenze di classe sociale; collegava l’ultimo al primo, l’intimo al supremo e all’armonia. Era il tramite all’infinito e al divino. Inizialmente, lo riservò a Minuetti, Scherzi e Finali (questi ultimi spesso realizzati in forma di Rondò), per poi “allargarsi” e farlo diventare, tra l’altro, la voce preferita nei suoi Lieder: come nel ciclo An die ferne Geliebte (1816).
Ne sono esempi la Sonata in re maggiore op. 28 “Pastorale”; la Sonata per violino e pianoforte op. 24 “La Primavera”; i primi due Concerti per pianoforte; il Concerto per violino (soprattutto nel terzo tempo); la Sonata per violino e pianoforte op. 96 e, ovviamente, la Sinfonia n. 6. In sostanza, l’immaginario pastorale non smise mai di ricoprire un ruolo centrale nell’orizzonte creativo di Beethoven. Era il simbolo di una difficile, dura, ma possibile riconquista dell’età dell’oro; di un Eden perduto in cui l’umanità e la Natura erano uniti.
Nel 1795, a soli 25 anni, dopo aver assistito a Bonn a una rappresentazione dell’opera, d’argomento appunto bucolico, La Molinara (1788) di Giovanni Paisiello, per compiacere una giovane dama Beethoven compose in una sola notte le Sei variazioni per pianoforte sul Duetto «Nel cor più non mi sento». Furono concepite in maniera semplice per permettere una facile lettura a prima vista.
Beethoven e Paganini
Impossibile paragonarle a ciò che, circa 25 anni dopo, da quel tema avrebbe tratto Niccolò Paganini, il sovrano del virtuosismo trasposto sul violino: ovvero, una summa degli effetti più spettacolari della sua tecnica spericolata.
Al contrario di Beethoven, Paganini conosceva i segreti per gestire le reazioni della gente, e provava piacere a farlo. Sapeva come far crescere spasmodicamente l’attesa dei suoi concerti. Quando saliva sul palcoscenico era il re dell’artificio e dell’illusione, quasi una specie di David Copperfield ante litteram. Tanto per dire come siamo messi oggi. Erano passati pochi decenni, Beethoven era ancora vivo, ma Paganini era l’età “moderna” che avanzava.
Paganini il grottesco
Un aspetto cadaverico, trascurato, goffo nel vestire e scomposto nei movimenti. Una figura smunta e di media statura; oltremodo magra, debole e sofferente; con una mancanza di denti che faceva rientrare la bocca, rendendo il mento ancora più pronunciato.
Una testa voluminosa, sostenuta da un collo lungo ed esile, che offriva al primo aspetto una spiccata sproporzione con le membra gracili. Una fronte alta, larga e quadrata; un naso aquilino, fortemente caratterizzato; le sopracciglia arcuate; una bocca piena di malizia; le orecchie ampie e staccate; i capelli neri e lunghi, ricadenti in disordine sulle spalle e contrastanti con una carnagione pallida.
Niccolò Paganini, uno dei grandi miti dell’800 musicale, si presentava al suo pubblico con un effetto da freak show, tragicamente in bilico tra il sinistro, il grottesco e il compassionevole.
Demoniaco e prodigioso
Tutto era studiato fin nei minimi dettagli. Nei Reisebilder, Heinrich Heine così ricordò il concerto che il violinista tenne ad Amburgo nel 1830: «E sul palco comparve finalmente una figura scura che pareva sorta dall’inferno. Era Paganini nel suo abito di gala nero: nera la marsina, nero il panciotto, di un taglio infame, ma forse sono prescritti dall’etichetta infernale del regno di Proserpina; i neri pantaloni penzolavano paurosamente attorno alle sue gambe stecchite:
Le sue già lunghe braccia parevano allungarsi ancor più quando in una mano teneva il violino e nell’altra l’archetto, così in basso che quasi toccavano terra, mentre esibiva al pubblico i suoi incredibili inchini. Nelle contorsioni angolose delle sue membra c’era un che di terribilmente legnoso unitamente a qualcosa di follemente animalesco; tanto che a questi inchini ci prese una strana voglia di ridere. Però il suo volto, che sembrava ancor più cadaverico al chiarore spietato della ribalta, aveva qualcosa di così incredibilmente umile e doloroso, che un’acuta compassione venne a soffocare il nostro riso».
Insomma, la prima sensazione che procurava la vista di Paganini era quella di disagio. Un’impressione causata in primis – anche al navigato Heine – proprio dalla destabilizzante impossibilità di decifrare e catalogare un personaggio enigmatico, anomalo e sfuggente, in cui si miscelavano anime differenti.
Musicista del terrore
Il fascino spettrale del violinista, prodigioso e demoniaco, maledetto e pirotecnico – dallo stesso Paganini abilmente coltivato, come quando, ad esempio, suonò di notte in un cimitero di Venezia – era nel complesso in sintonia sia con l’epoca del satanismo di Lord Byron e delle creature notturne evocate dai racconti di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann e di Charles Nodier, sia con un’accezione “infernale” del virtuoso del violino che affondava le sue radici nel passato: coinvolgendo, ad esempio, Giuseppe Tartini, e in una certa misura anche Antonio Vivaldi.
A questa dimensione sovrannaturale, Paganini accostava in maniera acida tutte le meschinità umane del quotidiano: l’atteggiamento posato e vanaglorioso; l’animo umorale, nevrotico, irritabile, malinconico, bizzarro, avaro, avido di guadagni; suscettibile come quello di una primadonna; prodigo nell’esibire e far valere tutte le lettere di raccomandazione ricevute da personaggi influenti dell’aristocrazia della politica della finanza e della cultura; ma anche, quando gli era utile, platealmente generoso nel mostrarsi munifico benefattore (come per l’indigente Hector Berlioz).
Paganini “influencer”
A tutto ciò, si aggiungeva in maniera incredibile anche il Paganini scafato e freddo profeta delle moderne tecniche di marketing; scrupoloso organizzatore di vere e proprie campagne di stampa che, anche con l’aiuto di emissari, promuovevano ed esaltavano la sua arte, scatenando tra la gente veri e propri atteggiamenti di fanatismo.
Nel 1828, dopo i suoi primi concerti viennesi, in città tutto era “alla Paganini”: acconciature, guanti, cappelli e dolci di pasticceria. Mentre la sua figura alimentava chiacchere da salotto e leggende “metropolitane”. Operazioni perfettamente pianificate e condotte con estro e talento, atte a creare un’aspettativa frenetica. Di conseguenza, si alzavano i prezzi degl’ingressi ai suoi concerti.
Insomma, poteva apparire un po’ genio e un po’ ciarlatano, un po’ angelo e un po’ demone, un po’ venditore ambulante di elisir di lunga vita e un po’ glaciale e spietato manager di se stesso. Si sarebbe trovato bene nei nostri giorni… e i nostri giorni ne avrebbero certamente guadagnato.
di Massimo Rolando Zegna