La produzione religiosa di Gioachino Rossini si distribuisce nell’intera vita del compositore pesarese. Tra le sue opere più note, lo Stabat Mater e le tantissime Messe

Nel momento in cui il Romanticismo stava avviando l’emancipazione delle scuole nazionali, creando quella frattura fra le varie tradizioni e tendenze compositive che avrebbe accompagnato la storia musicale fino agli inizi del ’900, Gioachino Rossini s’impose come l’ultimo erede dell’Illuminismo. Lo fece attraverso un’estetica ancora legata al bello ideale e a una concezione neoclassica, affermandosi in maniera rapida e bruciante su tutti i palcoscenici europei. Una modalità che spinse il suo primo biografo, Stendhal, a paragonarlo alla «folgore napoleonica»; facendo ricorso a un’immagine che ha un qualcosa di bellico, di terribile ma, assieme, anche di olimpico.
Gioachino Rossini nel mondo
Proposte dapprima in Italia, in poco tempo le opere di Rossini varcarono le Alpi, e invasero nuovi territori,; poi alimentarono il repertorio dei teatri viennesi, tedeschi, francesi e inglesi. Determinanti per l’evoluzione e le fortune del melodramma europeo furono tre eventi: la stagione rossiniana organizzata da Domenico Barbaja a Vienna nel 1822; il soggiorno inglese del compositore nel 1824; la fase francese della produzione di Rossini.
Il “rossinismo” non fu un fenomeno esclusivamente musicale. Si propose come un fatto culturale molto più ampio e totale; coinvolse a livello europeo la letteratura, le arti figurative e la vita sociale. Fra gli incondizionati ammiratori del compositore ci furono filosofi come Shopenhauer ed Hegel; poeti come Goethe, Heine e Leopardi; romanzieri come Balzac, George Sand, Dumas père, e lo stesso Stendhal; pittori come Delacroix. Gioachino Rossini metteva d’accordo tutti, superando confini territoriali e di pensiero che per lui non esistevano.
Tra musica sacra e opere
Quella operistica, però, fu un’avventura del tutto invasiva anche per lo stesso compositore. Lo costrinse a porre in second’ordine le sue altre facce musicali: tracciando la linea del destino quasi esclusivamente “teatrale” della scuola musicale italiana dell’800 e d’inizio ’900, fino a Puccini e al Verismo. A essere penalizzata fu soprattutto la musica sacra, che aveva svolto un ruolo di rilievo negli anni di formazione e di prima attività artistica del pesarese.
Eppure, nonostante il numero innegabilmente contenuto di titoli, i lavori sacri risultano distribuiti sull’intero percorso creativo del musicista. Cosa che non è per il generoso e importante catalogo operistico: cronologicamente circoscritto a soli diciannove anni di attività. Indizio non secondario, di un percorso interiore – spirituale se non proprio sacro – intrapreso dal seppur agnostico, se non addirittura ateo, Rossini.
Musica per le chiese
Dotato di una bella voce, fin da bambino Gioacchino Rossini cantò nelle chiese di Pesaro; continuò poi a farlo a Lugo e a Bologna negli anni di studio, fino a quando non mutò la voce. I suoi insegnanti – di musica e non – furono spesso uomini di chiesa. Come don Giuseppe Malerbi (organista ed eccellente contrappuntista) che, tra il 1802 e il 1804, dopo il trasferimento a Lugo del ragazzo, gl’impartì la musica con metodo e costanza. Già in questo periodo, Rossini concepì diversi brani sacri che sarebbero confluiti nelle successive Messe.
Tornato a Bologna nel 1804, il giovane divenne allievo di don Angelo Tesei (buon compositore di musica sacra); poi entrò due anni dopo nel Liceo Filarmonico della città. Il 4 aprile 1806, cantò la parte di Maria Maddalena (contralto) nell’oratorio La passione di Cristo del padre francescano Stanislao Mattei. Ovvero di colui che, fra il 1807 e il 1810, sarebbe stato il suo arcaicizzante e severo insegnante di contrappunto.
Le messe di Gioacchino Rossini
Nel 1808, partecipò alla cosiddetta Messa di Bologna: un lavoro collettivo, scritto da alcuni studenti del Liceo. Fu eseguito nella chiesa della Madonna di San Luca il 2 giugno di quello stesso anno. Sempre nel 1808, su commissione dell’amico contrabbassista dilettante Agostino Triossi, compose la Messa di Ravenna; comprendeva un Kyrie, un Gloria e un Credo. Mentre all’anno successivo, risale la Messa di Rimini, ideata per la cattedrale della città romagnola: di attribuzione molto dubbia.
Inoltre, al centro di un gruppo di altri lavori di scarso impegno, collocati tra l’inizio degli anni dieci e il 1824 circa, si erge la Messa di Gloria, eseguita il 24 marzo 1820, nella chiesa di San Ferdinando di Napoli.
Insomma, nel percorso artistico di Rossini, almeno fino a un certo momento caratterizzato da un vero e proprio furore creativo e da una determinata spietatezza nel porre fine, bruscamente, a un certo periodo artistico per aprirne uno nuovo, procedendo quasi a compartimenti stagni, la musica sacra si comportò con le modalità di un fenomeno carsico. Un torrente che sarebbe nuovamente riaffiorato attraverso lo Stabat Mater, dopo l’abbandono del mondo teatrale.

L’addio ai teatri di Gioachino Rossini
Se nel 1823, con Semiramide, Gioachino Rossini aveva deciso perentoriamente di chiudere la sua attività operistica italiana; nel 1829, con il Guillaume Tell, a soli trentasette anni, il musicista diede addio per sempre ai palcoscenici. Ne erano trascorsi solo diciannove scarsi dal suo debutto al Teatro San Moisè di Venezia con La cambiale di matrimonio.
Oggi il Guillaume Tell può anche apparire come l’opera di un programmato addio (anche se più avanti Rossini esternò il desiderio d’intonare il Faust di Goethe) e assieme di una sfida estrema: sia per le misure imponenti, sia per il soggetto politico-patriottico-romantico-libertario (oltre che platealmente anti-austriaco), del tutto estraneo nel gusto, negli ideali e nelle tematiche alla parte più conservatrice di Rossini. Un duello che celava il desiderio di dimostrare, prima dell’abbandono, di aver compreso a quale lidi sarebbe approdato il melodramma. Così come sarebbe successo più avanti, nell’abito del sacro, in maniera ancora più vertiginosa, con la Petite Messe Solennelle.
Il Guillaume Tell impegnò Rossini al limite delle sue possibilità di resistenza, per ben cinque mesi. Troppo, come dichiarò lo stesso musicista; gli erano bastati solo quindici giorni per concepire l’opera precedente, Le Comte Ory. Manifestando un uomo nuovo nel medesimo uomo, l’opera sfinì e spaventò Rossini. Lo conducesse sull’orlo di un abisso senza confini. Decretò il suo silenzio teatrale, scoprendo i nervi di una dicotomia da sempre latente nell’animo del musicista: la maschera comica, l’ironia e la fermezza degli ideali classici da una parte; la serietà, la nevrotica ipercinesi, l’insofferenza, il febbrile desiderio di esplorare lo sconosciuto, la geniale follia degna di un autore già romantico dall’altra. Da quel momento, gradualmente, Rossini finì per collassare.
La fase della depressione
Per circa 25 anni, fino al suo definitivo e significativo abbandono dell’Italia per Parigi, il compositore cadde nel tormento del male di vivere, nel buio della depressione, naufrago in un impressionante mare di guai psicologici e fisici, in parte di natura della prima fase – grave, ma meno acuta – della sofferta crisi di Rossini. E che sono soprattutto l’interruzione del lavoro dopo aver musicato solo sei pezzi, e la successiva richiesta d’aiuto rivolta all’ex-compagno di studi a Bologna Giovanni Tadolini a dare la misura della crisi che il compositore attraversò negli anni che seguirono il Guillaume Tell.
Ma il risultato mostra come non si fosse interrotto il percorso creativo del musicista: seppur interiorizzato e coltivato in silenzio.
Piccola Messa Solenne
Dopo i tre Cori religiosi La foi, L’espérance e La charité, presentati nel 1844 (ma i primi due sono adattamenti di altrettanti ideati nel 1817 per l’Edipo a Colono), il Tantum ergo concepito nel novembre 1847 cattolico della chiesa bolognese di San Francesco dei Minori Conventuali, il O Salutaris Ostia (ideato nel 1857, dopo il definitivo abbandono dell’Italia di due anni prima), e il Laus Deo del 1861, Rossini sarebbe tornato alla sfera del sacro con l’enigmatica e visionaria Petite Messe Solennelle. Fu eseguita a Parigi, il 14 marzo 1864, durante la consacrazione della cappella della contessa Louise Pillet-Will.
In buona parte guarito da una malattia che lo aveva lasciato esausto, invecchiato e deluso, Rossini si era ormai costretto a un ritiro volontario, a un confronto artificiale con la realtà esterna. In sostanza, quasi limitato alle serate che si svolgevano nella sua casa; era un ambìto punto d’incontro per l’alta società, il mondo artistico e quello finanziario.
Nella Petite Messe Solennelle – pagina anticipatrice e di singolare modernità di linguaggio– troviamo lo spirito imprevedibile, ironico, polemico e paradossale proprio dei Péchés de vieillesse, qui espresso a partire da un doppio ossimoro: quello del titolo e quello elaborato nella partitura, terreno d’incontro tra formule antiche (ad esempio i fugati) e una nuova sensibilità coloristica-armonica che guarda al futuro.
Nella primavera 1867, per evitare che altri lo facessero dopo la sua morte, Gioachino Rossini orchestrò la partitura inizialmente destinata a un organico composto da sole dodici voci, due pianoforti e un armonium, ma ne proibì l’esecuzione. Sarebbe stata eseguita solo dopo la sua morte: il 24 febbraio 1869.
di Massimo Rolando Zegna
Le immagini sono tratte dal volume Rossini. L’artista, l’uomo, il mito, a cura di Paolo Fabbri, Utet Grandi Opere