Gianfranco Mariotti racconta 150 anni di Rossini Opera Festival

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Nel 2019 saranno 40 anni di Rossini Opera Festival. Gianfranco Mariotti l’ha visto (e fatto) nascere. Nell’edizione dell’anniversario, racconta  la lunga avventura che ha messo Pesaro al centro della musica

rossini opera festival 1984
Pesaro, 18 agosto 1984: all’Auditorium Pedrotti, va in scena Il viaggio a Reims. Sul podio c’è Claudio Abbado. La regia è di Luca Ronconi, scene  e costumi di Gae Aulenti

La straordinaria avventura del Rof, il Rossini Opera Festival la cui 39ma edizione comincia l’11 e si conclude il 22 agosto, è nata grazie alla passione di Gianfranco Mariotti, che di professione faceva il medico ginecologo. Quello che ha fatto è già nel titolo del suo libro, Suite della bellezza dimenticata, in cui ripercorre sotto varie angolazioni la categoria estetica del Bello, un’entità misteriosa «che non serve a nulla ma è indispensabile nella vita». Come la musica, e dunque come la Rossini Renaissance.

«All’epoca ero assessore alla Cultura del Comune di Pesaro, la mia città, dove fui nominato nel 1980 contestualmente alla nascita del festival». Mariotti ha 85 anni e questa sarà la prima edizione (non una qualsiasi: ricorrono i 150 anni dalla morte di Rossini: a Parigi, era il 13 novembre 1868) senza il suo timbro: non è più al comando, gli hanno dato la carica di presidente onorario, «come i papi», stigmatizza lui un po’ amaro.

Gianfranco Mariotti con Luca Ronconi
Gianfranco Mariotti con Luca Ronconi

Il Festival nacque da una “premessa”, uno spettacolo fulminante che lei seguì come spettatore.

«Sì, era Il Barbiere di Siviglia che nel 1969 diresse Claudio Abbado al Teatro alla Scala, e che si dava per la prima volta in edizione critica grazie a casa Ricordi. Io ero in un palco di terz’ordine, non avevo idea di cosa potesse succedere a un’opera sottoposta a quel trattamento. Fui choccato, rifare Rossini secondo quella modalità diventò un’idea fissa, una miccia che arse sotto traccia fino al 1980, per deflagrare nel Rof».

E nel mezzo? Tra il 1969 e l’80 passò un decennio.

«Intanto negli anni ’70 la Fondazione Rossini diede vita al monumentale progetto dell’opera omnia in edizione critica. Nel mezzo il Comune di Pesaro doveva restaurare il Teatro Rossini, che era inagibile. E nella realtà teatrale italiana c’erano stati arditi esploratori, Siciliani, Gavazzeni, persino la giovane Tebaldi, in cui era maturata un’attenzione, una nebulosa fatta di energie e presentimenti che avevano bisogno di una scintilla: il Rof».

Come fu accolto? Ci furono localismi miopi e un’attenzione internazionale quasi immediata…

«Ci fu subito un’apertura di credito mai immaginata, una bomba. Allo stesso tempo, è vero, i localismi miopi, animati da albergatori ma non solo; fecero leva su giornali del territorio, dicevano che il festival doveva servire il turismo, che si doveva tenere in giugno, quando la stagione estiva è ancora morta e non ad agosto, che dovevamo limitarci al Barbiere, La cenerentola, Guglielmo Tell, opere rimaste a galleggiare come note.

Noi tenemmo duro, i primi due, tre anni facemmo il festival contro la città, dando spazio a titoli rari se non sconosciuti: Mosè in Egitto, Ricciardo e Zoraide, Maometto II. Per capirci, il direttore del Conservatorio, che era un musicista militante, incontrandomi per strada mi disse: “Ho saputo che volete fare La donna del lago. Ma non è di Puccini?“».

Gianfranco Mariotti con il figlio Michele
Gianfranco Mariotti con il figlio Michele

La formula del Rof è assolutamente anomala: nasce libero dalle incrostazioni della tradizione, assecondando musicologia e teatro. Ma non fate musicologia astratta, dietro c’è il gioco della vita.

«Il festival si mostrò subito un laboratorio interattivo di musicologia applicata, qualcosa di mai visto prima e di mai visto dopo che, nascendo dalle edizioni critiche, unisce il lavoro di musicisti, musicologi e operatori teatrali. Nei primi anni eroici c’era il musicologo in platea con la partitura in mano. Poi nel 1984 tutti hanno taciuto dopo il trionfo de Il viaggio a Reims».

Ci fu anche un intervento di Giorgio Napolitano che…

«Sì, a sdoganarci fu anche Napolitano che nell’82, dunque in un periodo lontano dalla presidenza della Repubblica, lodò la nostra impresa in un comizio a una Festa dell’Unità, osservando che restituivamo un tesoro nascosto».  Un momento critico della rassegna fu il 1992, anno del bicentenario della nascita di Rossini. «Per noi fu una jattura», ci disse in un articolo per il Corriere della Sera.

«Nelle intenzioni doveva essere un’edizione memorabile in un cartellone emblematico e invece fu una mezza delusione. Ricordo Il Barbiere di Siviglia allestito da Luigi Squarzina che andò così così, la ripresa del Viaggio a Reims, la Messa di Gloria diretta da Accardo. Poi c’era il problema del finanziamento speciale, che non era quello che ci aspettavamo. Risorse compresse.

Non me la sono mai presa con i governi, non abbiamo mai aperto voragini di disavanzi e abbiamo tenuto alto il livello artistico. Siamo andati in un’orbita internazionale col Viaggio a Reims e non siamo più scesi: quello spettacolo di Claudio Abbado e Luca Ronconi aveva un cast stellare, forse superiore all’originale di Rossini; e poi c’era la grande partitura perduta e ritrovata. Aveva tutte le componenti per essere lo spettacolo rossiniano del Novecento. Tra gli spettacoli di punta voglio citare Tancredi, di cui Pizzi curò tre allestimenti: a me resta nel cuore quello gotico del 1982».

A che cosa servono gli anniversari?

«Mi sono sempre sottratto alle celebrazioni, sostenendo che la nostra impresa ha un passo più ampio»

Perché i Festival su Puccini o su Verdi non hanno raggiunto il vostro successo?

«La risposta è ovvia, il mondo è un immenso festival verdiano, noi avevamo un’Atlantide sommersa, un giacimento di capolavori sconosciuti, ognuno dei quali è di una bellezza abbagliante».

Il Rof e la perla più lucente, Il Barbiere di Siviglia.

«Io avevo e ho tuttora una mia idea del Barbiere, che secondo una tradizione becera si considerava sul registro buffo. È una commedia di carattere che collide con la comicità assoluta, un capolavoro imperfetto. Ricordo un’edizione di Luca Ronconi, nel 2005, in cui dei noti critici mi rimproverarono: ma come, l’avete resa un’opera problematica. Ma è proprio così, è una commedia che contiene tutti i registri dell’esistenza: comica, severa, patetica, sinistra. Pensa all’Aria della Calunnia, ti pare una scena buffa? Per una parte del pubblico i tempi non erano ancora maturi».

gianfranco marriotti

Ci sono state tre figure fondamentali nella vita del Rof, tra Fondazione e Festival: Alberto Zedda, Philip Gossett e Bruno Cagli.

«La Trimurti del Rof: il primo è stato il musicista musicista, il secondo il musicologo musicista, il terzo è il musicologo letterato. Litigavano spesso».

Tutti e tre caratteri non facili.

«Litigavano sui diritti delle edizioni critiche».

Li ricordi a uno a uno. Zedda veniva da studi filosofici, era di formazione sinfonica e organistica, studiava Bach e i fiamminghi…

«Beh, quello con Zedda fu un incontro fortuito. Non lo conoscevo. Del Barbiere alla Scala di cui abbiamo parlato, lui aveva curato l’edizione critica. Mi innamorai di osservazioni spiritose che scrisse sul programma di sala che passarono nel disco. Lo conservo come una reliquia sacra. Lo conobbi nel 1980, era affascinante, fumino, capace di arrabbiarsi per piccole cose.

Ci ho litigato anch’io, era impossibile non farlo. Ma abbiamo lavorato in un clima di fraternità. Alberto era onnivoro, era egoista, desiderava tutto, “voglio voglio voglio”, non tralasciava mai niente, non rinunciava a nulla. Come direttore d’orchestra era diverso».

Anche l’americano Gossett aveva un temperamento complicato.

«Purtroppo si. Era intrattabile, ho avuto un rapporto problematico anche con lui. Le cose che scriveva sono di grande finezza e qualità, ha sistemato il format delle Sinfonie rossiniane, il suo catalogo di Rossini è ancora una Bibbia».

Cagli?

«Ha un carattere più semplice. Quando ero assessore, lui ricopriva l’incarico di consulente musicale per il Comune, di cui curava una stagione di concerti. Dovevo usare il personale che c’era, all’epoca Cagli era direttore artistico dell’Accademia Filarmonica Romana, fraternizzammo subito.

Conosceva gli artisti, io nel primo anno non ne avevo di grandi, specie nella Gazza ladra. Un po’ ingenuamente proposi anche L’inganno felice, con Zedda sul podio e Cagli regista, fu una delle sue poche regie, per sottolineare il rapporto tra Festival e Fondazione».

Un rapporto altalenante…

«Io direi largamente positivo. Poi ci sono state incomprensioni, quando per dirne una Gossett usciva dal seminato. Metteva bocca negli spettacoli, cosa che non era di sua competenza, facendo commenti malevoli sui giornali. Il fuoco amico. Era la delimitazione degli ambiti reciproci che talvolta non ha funzionato”.

Veniamo alla scoperta del Rossini serio.

«La riscossa del Rossini drammatico, un capitolo centrale. Fatto il conto della serva, della quarantina di sue opere una decina sono buffe, un catalogo limitato in cui metto dentro anche le farse in un atto. Semiramide, Guglielmo Tell, Mosè in Egitto, lo stesso Maometto  II hanno abbattuto gli stereotipi».

Che uomo era, Rossini?

«Anche qui la tradizione, tramandandoci l’immagine del gaudente  e mangione, ha fatto danni. Rossini era un uomo tormentato, enigmatico, fascinoso, coperto. Come musicista ha avuto un codice espressivo completamente diverso da quello romantico e verista.  Noi l’abbiamo restituito dopo un vuoto in mezzo, perché dalla metà dell’800 si era inabissato in fondo al mare fino quando fu ripescato da noi».

gianfranco marriotti

Non è questa l’occasione per discutere di regie, però come vi siete posti?

«Abbiamo sempre mantenuto un atteggiamento laico. Al problema delle regie e del linguaggio teatrale abbiamo dedicato edizioni intere. La storia del Rof è stata scritta da Ronconi, che curò undici allestimenti, da Pier Luigi Pizzi (di cui ho perso il conto), dai quattro successi di Graham Vick: L’inganno felice, Moïse et Pharaon, Mosè in Egitto e Guglielmo Tell».

Altra anomalia, la frequentazione degli stranieri.

«Il soprasso sugli spettatori italiani è avvenuto negli anni ’90. Quasi il 70 per cento del pubblico è formato da tedeschi, francesi, inglesi, americani. Ora sono in aumento i cinesi, gli indiani e persino gli africani. Il nostro atteggiamento laico (perdonate se mi ripeto) ha fatto crescere un pubblico multietnico. Che non è freddo, tutt’altro, non si vergogna di dissentire».

Una volta per Graham Vick si scatenò una rissa.

Sorride: «Fu accusato di offendere la cultura ebraica. Aveva raffigurato Mosé come un guerrigliero, il capo di una popolazione che si ribella agli egiziani. Somigliava un po’ a Bin Laden. In realtà citava quello che la televisione ci mostra ogni giorno in casa. Comunque vinse il premio Abbiati per il migliore spettacolo dell’anno».

I vicini eccellenti, Luciano Pavarotti, Juan Diego Flórez, Maurizio Pollini.

«Pollini a dire il vero non ha casa qui, va sempre nello stesso hotel in collina. La sua unica direzione d’opera avvenne al Rof: La donna del lago. Ero stato a un concerto a Milano in cui suonò con Accardo, sapevo che era in animo di dirigere. Dopo un concerto di Abbado e Dino Ciani (il grande pianista prematuramente scomparso), andammo nella casa di Ciani sul lago. Ci raggiunse Pollini, passammo il pomeriggio a cantare.

Pollini con la sua voce da baritono, il bicchiere di whiskey in mano, cantò il Conte di Luna dal Rigoletto. Suonava alla tastiera insieme con Ciani. Così ho scoperto che amava l’opera. Dieci anni dopo gli parlai della Donna del lago, gli mandai la partitura, lui si mise a ridere dicendomi che le marce gli ricordavano Paperino. Poi accettò, si era anche consultato con Abbado che gli disse: debutta, ti presto la mia Chamber Orchestra of Europe. Tutti giovanissimi. L’Orchestra con i bambini di Dio, la chiamavo io».

Pavarotti?

«Lui era nella sua villa, tenne soltanto un recital gratuito in piazza del Popolo, il sindaco gli diede le chiavi della città. Cercai di dargli la partitura dell’Otello di Rossini ma mi rispose che per lui Otello era quello di Verdi. Adua, la sua ex moglie, che fa l’agente di cantanti, veniva alle audizioni di nuove voci. Con Pavarotti c’era un rapporto cordiale ma non veniva nemmeno come spettatore».

Flórez?

«Pesaro è il luogo dove ha cantato di più, l’anno prossimo tornerà. Talvolta ha un atteggiamento da divo, si presenta in ritardo alle prove, vorrebbe cambiare delle cose. Ma io dico sempre che averlo, per un regista e per un direttore d’orchestra, è una benedizione. Fa qualunque cosa gli chiedi, al massimo livello».

Si aspettava il successo internazionale di suo figlio Michele sul podio?

«Me lo aspettavo. Lui da giovanissimo era abitato da una divorante passione per la direzione d’orchestra. Ha avuto il privilegio di stare in una casa dove bazzicavano grandi musicisti; d’estate, tutto bianco, seguiva le prove di Abbado senza mai andare al mare. Si metteva nel mio studio, apriva i libretti d’opera e, senza ancora conoscere la musica, li scarabocchiava, dirigeva, dava gli attacchi agli archi.

Quando morì sua madre, mia moglie, cercai di proteggerlo in un ambiente sportivo sano, giocava a basket nella giovanile della Scavolini. Si iscrisse al Conservatorio già grandicello, in composizione. Ha bruciato le tappe, si è messo a dirigere assimilando il gesto di Abbado, poi ha trovato la sua gestualità. Non l’ho mai galvanizzato, ha sempre studiato come un pazzo. Non gliel’ho mai detto che era bravo. Ora è inutile che lo dica: lo sa da solo».

Zedda una volta ci disse: la conquista più bella è di non aver coltivato specialisti rossiniani.

«Aveva ragione. Se canti Rossini puoi cantare tutto, non è vero il contrario. Lo specialista rossiniano non ha senso».

L’opera del suo concittadino che porterebbe sull’isola deserta?

«È l’ultima che ho sentito. Se proprio devo dirne una, Le Comte Ory. La ascolterei tutte le sere».

Come spiega il silenzio di Rossini?

«Smise di comporre a 37 anni per due ragioni: la depressione che lo colse nei primi anni ’30 dell’800, e si è portato dietro per tutto il resto della sua vita. E contemporaneamente non assecondò il codice romantico che impazzava. Questo vento impetuoso spirò in tutti gli ambiti, non solo musicale: nel teatro, nelle arti figurative, nella politica, c’erano rivoluzioni da ogni parte.

Era il linguaggio dei sentimenti impudicamente esibiti a cui lui non volle aderire, se non nel Tell: li dettò stremato lo statuto dell’opera romantica. Ma non lo condivideva, la sua visione era la realtà colta attraverso una metafora. Si chiuse in un silenzio assoluto che ruppe con la Petite Messe Solennelle, che ha l’ossimoro nel nome (piccola, solenne) e nel contenuto (nostalgico, profetico).

Perché ha lasciato?

«Avevo ancora un anno di contratto. La Corte dei Conti mi ha fatto sapere, con discrezione, che essendo pensionato dall’ospedale, ero in contrasto con la legge Madia. Una specie di cartellino giallo. Mi sono dimesso immediatamente, non avevo voglia di mettermi in un contenzioso d qualunque genere».

Rammaricato?

«Da noi il sovrintendente si occupa solo di spettacoli, senza mandati amministrativi, tutto il resto del potere è nelle mani del Cda. Ma non ho voluto immiserire trentotto anni di vita mettendomi a litigare con la Corte dei Conti. Rammaricato? Beh sì. So di aver fatto la cosa giusta. Tra l’altro ho avuto il privilegio di vedere da vivo i miei necrologi. Tutti benevoli, anche di chi non era mio amico».

Con quale stato d’animo seguirà la rassegna, e che futuro immagina?

«Tiferò sempre per il Rof, forse con meno apprensione ma con eguale empatia. Non posso negare che il teatro mi manchi, mi annoio anche un po’, però sono rimasto vicino al Festival. Certo, non è la stessa cosa. Quanto al suo futuro, credo sia incalanato su un binario solido, a meno che qualcuno voglia sbaraccare tutto, ma non credo avverrà».

Gianfranco Mariotti, ha rimpianti?

«Se ripenso a quello che ho fatto, no; provo solo orgoglio. Forse ne ho uno: quello di non essere riuscito a portare Leonard Bernstein. Sono convinto che avrebbe interpretato un Rossini supremo».

Il titolo, Rossini Opera Festival, si prestò a qualche critica.

«C’era da qualche parte il Musorgskij Festival…È stato criticato il nostro forestierismo, in realtà ci hanno copiato in molti».

di Valerio Cappelli

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