L'importanza dei festival musicali

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Perché i festival sono così importanti per il mondo del teatro musicale? Duplice risposta per un fenomeno irrinunciabile

Spettatori sul prato del Glyndebourne Festival
Spettatori sul prato del Glyndebourne Festival

Secondo il famoso giornalista inglese Bernard Levin, il festival di musica “ideale” è strettamente legato alla località in cui si svolge. Deve essere «abbastanza grande da poter alloggiare tutti coloro che vogliono parteciparvi; ma abbastanza piccola perché vi predomini, durante il suo svolgimento, il clima festivaliero [its festival function]» (B. Levin, Conducted Tour, 1981).

Per quello che riguarda l’opera, due sedi “archetipiche” sono senza dubbio Bayreuth e Salisburgo.

Il festival wagneriano di Bayreuth aprì i battenti nell’estate 1876; quello nonsolomozartiano di Salisburgo divenne definitivamente se stesso a partire dall’estate 1920.

Ma in che cosa consiste la “funzione-festival” di cui parla Levin?

Perché i festival sono così importanti per il mondo dell’opera? La risposta può essere duplice.

La prima è ontologica. Com’è stato spesso affermato, l’opera è attraversata da una sorta di tensione utopica che la spinge continuamente fuori dalla routine, fuori dal mondo “normale”. Il grande utopista Charles Fourier ha scritto molto significativamente che l’opera dovrebbe sostituire il culto religioso (Le nouveau monde industriel et sociétaire, 1829). Essa dovrebbe essere il modello della “educazione armonica”. È utopia incarnata.

I festival estivi hanno solo preso il posto della stagione di carnevale di un tempo. Anche quello estivo è infatti un tempo “sospeso”, quello della “vacanza”.

La comunità dei festival

Ogni festival ha bisogno di una poetica, un’“anima”, che faccia sentire i partecipanti membri di una “comunità”. Le “comunità immaginate” (nel senso di Benedict Anderson) dei frequentatori di festival sono spesso identificate con delle élites, anche se non necessariamente in senso sociale. Talora sono delle élites cui non manca una componente autoironica.

Basti pensare al rito del pic-nic in smoking durante i lunghissimi intervalli delle opere al festival di Glyndebourne. Smoking, anzi tuxedos, dai colori più eccentrici che ti puoi immaginare consumati tra le pecore che brucano e i maggiordomi che servono lo champagne. Et in arcadia ego? Ma va detto che dal pellegrinaggio a Bayreuth in poi, tutti questi riti iniziatici, furono anche una risposta a una paura sempre più diffusa: quella della banalizzazione del fatto musicale. Banalizzazione o popolarizzazione?

Contro la cultura popolare

E qui ci avviciniamo alla seconda risposta, quella storica. Perché i festival si sviluppano soprattutto nel Novecento in Europa e nel Nord America? I frequentatori dei festival sono assetati di “eventi” e di “distinzione” (nel senso di Pierre Bourdieu) in quanto avvertono la popolarizzazione dell’industria culturale come una minaccia.

Il processo di mercificazione/ mediatizzazione/banalizzazione della musica è un presupposto fondamentale per capire il ruolo culturale svolto dai festival nel mondo contemporaneo. Questi ultimi sono in questo senso molto più un sintomo che una soluzione; ma il modo partecipativo e comunitario cui si richiamano, l’esigenza di sviluppare una “poetica”, e dunque una serie di valori specifici da condividere (un autore, un genere, la riscoperta di titoli sconosciuti, la sperimentazione di particolari prassi esecutive, ecc.), sono tutti elementi preziosissimi a cui il mondo dell’opera non può e non deve rinunciare.

di Emilio Sala

allopera@belviveremedia.com

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