Francesco Meli: un posto regale ai vertici del panorama lirico

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Panettone, spumante, buoni propositi per l’anno nuovo, ma anche arie e duetti d’opera nel più schietto stile del melodramma italiano. Vola nelle case degli italiani la voce tenorile di Francesco Meli con il concerto dell’Orchestra della Fenice guidata da Myung-Whun Chung, video-trasmesso in diretta su RaiUno martedì 1 gennaio alle 12.20. Evento di spicco nel calendario veneziano, disegnato fra rami di abete e bacche rosse fuoco (ma preceduto per chi fosse in città giorni prima anche il 29 sera, il 30 e 31 dicembre al pomeriggio) che darà ulteriore visibilità a questo principe dei tenori nostrani. Genovese, classe 1980, cresciuto a pane e musica nelle aule del Conservatorio Paganini, con il suo timbro rotondo e caldo Meli si è infatti ormai conquistato un posto regale ai vertici del panorama lirico, grazie anche a una finezza psicologica, a un’introspezione sul personaggio che raramente si ritrova in altri solisti d’opera.

Maestro Meli, che cosa si prova a mandare gli auguri musicali a tutto il mondo in tv?

«Una gioia fortissima. Già Venezia e la Fenice rappresentano una grande emozione, ma partecipare a un evento come questo che punta a sostituire vecchie abitudini d’ascolto è un fatto straordinario. E la macchina organizzativa del teatro sta muovendosi davvero in modo perfetto».

Di fianco a lei ci sarà anche Nadine Sierra, che ha già cantato per il Capodanno veneziano nel 2016.

«Non mi sono mai esibito con lei, ma da quel che sento dire in giro è incantevole, come voce e come persona. Sono davvero impaziente di conoscerla e di lavorare con lei».

Quali brani ha scelto prima dell’immancabile Libiam ne’ lieti calici?

«Una furtiva lagrima dall’Elisir d’amore e E lucevan le stelle dalla Tosca. Ma oltre al consueto Brindisi della Traviata eseguiremo anche quello della Rondine di Puccini, un quartetto vocale inconsueto, anche complesso ma davvero molto bello. Solo da qualche giorno so che una delle parti sarà cantata da mia moglie Serena Gamberoni. Devo proprio dire, una gioia in più».

Alfredo, Nemorino, Manrico, per ultimo Ernani alla Scala non sono che alcuni dei grandi personaggi lirici che veste regolarmente. Quanto conta il suo potere sulla scelta dei ruoli, per un tenore al vertice della carriera?

«Per me una carriera si fa con la testa più che con la voce, anche se per azzeccare le scelte giuste bisogna avere di fianco persone competenti, fidate ma soprattutto sincere. Detto questo, l’ultima parola è sempre dell’artista. Non potrei mai accettare un contratto per volontà di  chicchessia. Un musicista non può interpretare una composizione contro la sua natura e le proprie attitudini personali. Anche se poi è fondamentale avere la coscienza di chi e cosa sia musicalmente».

Lei ha detto di recente che l’acuto per un tenore non è tutto: bella frase per un cantante, che sfata un tabù secolare per i melomani.

«Il tenore, come qualsiasi musicista deve prima di tutto capire la musica da interpretare e comprendere a fondo il significato. Solo in un secondo tempo può guardare all’aspetto puramente vocale. Se non lo fa la sua esecuzione si limita ad un esercizio di ginnastica puramente vocale e privo di senso».

A quasi 40 anni lei ha ormai raggiunto i vertici della sua vita di tenore: quali strategie e idee sta formulando per i prossimi decenni?

«Il tempo passa e i 16 anni di carriera ufficiale (che in realtà sarebbero oltre 20) rendono difficile mantenere le aspettative che gli altri hanno su di te. Le strategie appaiono semplici, perché continuerò a fare quello che ho sempre fatto: ascoltare la mia voce e il mio corpo per capire i cambiamenti, agendo di conseguenza sugli accorgimenti da mettere in pratica. I debutti e le scelte di repertorio sono fondamentali, segnano il futuro o la fine di una carriera, ma è importante conoscersi senza tradire la propria identità. Poi i posteri giudicheranno le scelte. Io continuo per la mia strada scavando nei personaggi che interpreto, unico modo per andare avanti in carriera».

Di quante ore di lavoro quotidiano si ha ancora bisogno, quando si è al top?

«Lo studio (sia tecnico che musicale) è prioritario e io lo affianco a quello del pianoforte, mio primo grande amore, perché un cantante deve avere la mente aperta, da musicista completo. Le ore dipendono da tante variabili. Si può andare dal riposo totale per brevi periodi a un lavoro intensissimo quando si prepara un ruolo nuovo. Certo, smettere di studiare è inimmaginabile».

Come è cambiato il mondo del belcanto rispetto a quando studiava al Conservatorio?

«Il mondo del belcanto è sempre in evoluzione, sempre. E fra i cambiamenti più vistosi direi che c’è quello che riguarda l’esecuzione di Verdi. Lì si è andati davvero parecchio avanti, riscoprendo radicalmente la sua profonda verità esecutiva».

C’è un tipo di regia lirica che rispetta e predilige?

«Non ci sono regie classiche o moderne, ma intelligenti o stupide. Le stupide sono quelle che devono cambiare tutto per forza, sconvolgere ogni cosa soprattutto nei rapporti tra i personaggi. Le intelligenti invece quelle che rispettano la storia e la sensibilità dei ruoli, che ci raccontano i sentimenti dei personaggi al di là della loro contestualizzazione, rispetto al libretto originario. In buona sostanza a me piacciono quelle intelligenti».

C’è un direttore davvero significativo che abbia influito sulla sua carriera?

«Senza dubbio Riccardo Muti. L’inizio del rapporto con lui ha rappresentato una svolta decisiva della mia carriera, specie nell’ingresso del repertorio verdiano. Da Muti ho imparato l’approccio musicologico del personaggio e la necessità di capire fino in fondo cosa ha voluto dire il compositore con la sua scrittura. Un rigore e un rispetto della partitura che poi può anche portare alla più profonda libertà espressiva. Per questo gli sarò eternamente grato».

Ci sono sempre palcoscenici (in primis la Scala) che scottano per una voce lirica di successo.

«E’ vero, inutile negarlo, per diverse ragioni: la severità del pubblico, la grande storia che queste istituzioni hanno alle spalle e i ruoli percepiti spesso come terreno esclusivo, lasciato in eredità da un cantante leggendario. Ma se devo essere sincero, non soffro troppo di queste tensioni. Non per un fatto personale, men che meno per un gesto arrogante o di presunzione, ma perché quando decido di mettermi su un palco sono sicuro di quello che faccio».

La schiera dei fan (folta nel suo caso) può essere d’aiuto?

«Nella lirica i fan rappresentano un mondo straordinario, variopinto e variegato. Hanno la loro parte di merito, a volte molto forte. C’è gente che ti ama alla follia e altri che storcono il naso: questo fa parte del gioco, ma in certi casi può determinare la fortuna o la sfortuna di una carriera. Personalmente devo moltissimo ai melomani di Parma e a quelli della Scala che mi hanno sempre tributato grandi successi, aiutandomi (anche sul piano emotivo e pratico) a costruire il mio percorso».

Correre sempre a casa per abbracciare la famiglia (sua moglie Serena e i tre figli) servirà per lei a scaricare la tensione, e a farle tenere i piedi per terra.

«Pensi che fino a qualche giorno fa cantavo nel Simon Boccanegra alla Royal Opera House e riuscivo addirittura a rientrare sempre, tra una recita e l’altra, grazie all’ottimo collegamento che c’è fra Londra e Genova. Per me stare vicino a mia moglie e ai miei figli è fondamentale, non ci ho mai rinunciato».

Magari non sarà sempre possibile per i suoi prossimi impegni. Vogliamo ricordarli?

«Le stagioni a venire saranno all’insegna di Verdi, Verdi e poi ancora Verdi, sia pure senza debutti significativi: dalla Traviata alla Scala con Chung all’Aida a Chicago con Muti, oltre alle numerose Messe da Requiem in giro per il mondo e a un gala in cui faremo tre atti di tre opere verdiane, Simon Boccanegra, Aida e Otello. Beh, in quest’ultimo caso il debutto di ruolo c’è, ma soltanto nel quarto atto».

Immagine di copertina Ph. Victor Santiago

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