Riccardo Muti dirige Macbeth in forma di concerto con l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino. E illumina l’orrore, il triviale e il sublime

A mezzo secolo dal debutto a Firenze, Riccardo Muti torna in città festeggiato come un sovrano. Addirittura dalla Fiorentina, che gli regala una maglia viola con il numero 50. Perché i suoi dieci anni e passa da bacchetta principale hanno fatto la storia del Maggio. Con quella che è stata la sua orchestra, Muti dirige Macbeth in forma di concerto (poi portato al Ravenna Festival). Dimostrazione di quanto sostiene da sempre, che il teatro verdiano non ha bisogno di regia.
Ogni cosa è nella musica. Basta saperla tirare fuori, leggendo con attenzione quel che scrive la partitura. Perché Verdi è il miglior regista di se stesso, e rispettarne le indicazioni vale quanto, e più, che vederlo rappresentato.
La sua drammaturgia asciutta può fare a meno degli orpelli
Il direttore non ha da far altro che eseguirne le direttive, inducendo i collaboratori ad abbandonare le abitudini cattive della routine del palcoscenico per recuperare l’esattezza del dettato testuale. Ha ragione. In questo Macbeth niente passa davanti agli occhi, eppure l’intera tragedia dell’ambizione e della follia per il potere si staglia comunque grandiosa, viva.
Un teatro dell’ascolto. Più teatrale che se avesse la messinscena. Intanto per la coerenza incalzante dell’assieme che annoda con un sol filo, tesissimo, il rapporto torbido della coppia protagonista all’aura grottesca delle streghe, perfino alla “musica villereccia” del prim’atto (che zotica, stavolta, non suona affatto) e al ballabile sfavillante del terzo, momento di divertito istrionismo per il Maestro.
Macbeth forse l’ha scelto anche perché è l’opera scritta da Verdi per Firenze
Lavoro sperimentale di cui Muti rileva, grazie alla prova sontuosa dei musicisti, l’orrore, il triviale, il sublime. Negli archi di vetro soffiato. Nell’urgenza espressiva che si manifesta nella pressione ritmica. Nelle detonazioni di consonanti del coro iniziale di megere.
In «Patria oppressa» che geme fra spigoli dolorosi e trafitture dei legni. Nello scivolare su tessuti di raso e negli squassi timbrici che, irraggiati dall’orchestra, illuminano il dramma meglio di qualsiasi light designer. E poi, dentro Macbeth del 1847 rivisto nel ’65 per Parigi, filtra nientemeno che il sinfonismo d’oltralpe, di Mendelssohn, di Schumann.
Le voci soliste sono ben tirate, strumentali. Riccardo Zanellato, Francesco Meli, Vittoria Yeo, lama avvelenata perfino troppo lustra per essere la Lady, e Luca Salsi, Macbeth che ha gli spettri nella voce. Meraviglioso il loro duetto dopo l’assassinio del re. Sussurrano atterriti, temendo quasi che le mura abbiano orecchie. Da ultimo un appello di Muti alle istituzioni: l’impegno affinché le spoglie del fiorentino Luigi Cherubini, autore a lui caro, possano riposare nel sarcofago vuoto di Santa Croce.
Gregorio Moppi