Anche quest’anno, il Festival Manca di Nizza, alla sua edizione n.38, non ha mancato di stupire il suo pubblico con lavori di grande impatto teatrale.
Tra questi Ajax, «opera per voce sola» della affiatata coppia Marianne Pousseur ed Enrico Bagnoli (Compagnia Khroma), magnifico esempio di arte totale, creato su un testo molto intenso del poeta greco Yannis Ritsos, come terzo pannello di un trittico “greco” che comprende anche Ismène e Phèdre (avevano debuttato proprio al festival Manca, rispettivamente nel 2011 e nel 2015). In questo monologo, concepito come «Ramificazione della tragedia greca nel mondo contemporaneo», Aiace è l’eroe che perde il senno e si interroga sul suo destino: decide di vendicarsi degli Atridi (ai quali contendeva le armi di Achille), ma, impazzito per un incantesimo di Atena, al loro posto massacra un gregge di pecore. Resosene conto, per senso dell’onore, preferisce suicidarsi, trafiggendosi con la spada donatagli da Ettore.
Ai tormenti di Aiace dava voce e corpo Marianne Pousseur (figlia di Henri Pousseur, maturata vocalmente sotto la guida di Philippe Herreweghe, nel Collegium Vocale Gent e nella Chapelle Royale), che agiva sul palcoscenico con gesti composti e carichi di angoscia, cantava, recitava, sussurrava, usava suoni gutturali, dal carattere ritmico, percussivo, molto guerriero, che via via assumevano tratti più melodici («Aiace è un combattente – spiega la Pousseur -. All’inizio non sa parlare, poi comincia via via ad esprimersi, a dire cose più intime, fino a cantare. All’inizio ripete ossessivamente “bataille”, come una litania, poi impara a cantare»). La stessa Pousseur ha creato tutte le musiche, ispirandosi alla marce militari e ad antiche formule liturgiche e gregoriane, rifacendosi anche all’Agnus Dei, ma con parole greche. Si muoveva in scena illuminata da luci radenti, avvolta da un fondale sonoro spazializzato (creato da Diederik De Cock) fatto di fruscii, soffi, echi elettronici che sembravano dei sospiri provenienti da fonti diverse. Creava giochi risonanze e amplificazioni usando il suo grande scudo metallico. Dava vita a una performance ipnotica, dove tutto veniva dalla sua voce, sia i cori (registrati in multitraccia), sia le sorde pulsazioni che suonavano come passi di marcia, ma erano registrazioni dei suoi dai battiti cardiaci.
Intorno a questo one-woman-show, Enrico Bagnoli (premio Abbiati per la scenografia del Ring di Barenboim alla Scala nel 2013) ha costruito un spettacolo minimale, fatto di elementi semplicissimi, ma di straordinaria forza drammatica, un teatro sensoriale, insieme tragico e ammaliante. 14 lastre rettangolari, appese intorno al palcoscenico, apparivano come presenze totemiche, sculture enigmatiche, addirittura come un coro, perché nelle parti cantate sembravano palpitare (grazie a piccoli altoparlanti a contatto con le lamiere). Queste lastre riflettevano la luce di tre proiettori, come anche un grande disco, sul fondo della scena. A terra solo delle pelli di animali, che nel momento culminante del racconto sembravano respirare, prendere vita, attraverso un ingegnoso meccanismo di pompe e camere d’aria.
Tra gli appuntamenti clou del festival (che è anche da 38 anni la vetrina del lavoro di ricerca del CIRM, Centre National de Création Musicale) c’è stato anche il concerto di Christophe Desjardins, massimo esperto del repertorio violistico contemporaneo. Nella sontuosa cornice di Palais Lascaris, ha eseguito Lament d’Edith Canat de Chizy, pezzo dalla fattura piuttosto tradizionale, dove la viola tendeva ad imitare la voce e il pianto (nella tradizione che va da Monteverdi e Purcell fino a Lacrimae di Britten e al Concerto lugubre di Tadeusz Baird) con la classica retorica degli intervalli discendenti, e un continuo intreccio di trilli, accenti, elementi melodici e percussivi. Molto più interessante Tombeau et Double di Alberto Posadas, lavoro monumentale, molto articolato, a tratti virtuosistico, basata su cambi di timbro e progressioni, su proiezioni “frattali” delle ornamentazioni, su un’originale preparazione ottenuta con due ance di clarinetto infilate dietro al ponticello, che creavano un suono sordo, cupo, ansimante. Ne risultava un discorso musicale sempre più denso, frammentato, drammatico, dove il Double appariva come una versione “zoomata” del Tombeau, che entrava nei dettagli del suono, svelando una materia più acida, stridente, carica di distorsioni.
Desjardins ha anche eseguito un classico come Messagesquisse di Boulez, nell’elettrizzante versione arrangiata per sette viole (sei registrate), e Alto solo II di Patrick Marcland, dove materiali elementari venivano “aumentati” dal live electronics, con lunghe risonanze, sfasamenti temporali, glissati ascendenti che sembravano scie sonore proiettate all’infinito verso l’acuto. Ultimo pezzo in programma era una novità assoluta (commissione CIRM) della compositrice americana Katherine Balch, nata nel 1991, studi alla Columbia University con Georg Friedrich Haas e Fred Lerdahl: Off hesperus (ispirato a un passaggio di Fuoco pallido di Nabokov) era un lavoro piuttosto rumoristico, molto ben congegnato, dove cigolii e suoni secchi, molto spazializzati, si mescolavano con gocciolamenti dell’elettronica, e con un gioco di led luminosi disposti sul pavimento, collegati alle diverse altezze del pezzo, «come un passaggio dal crepuscolo brumoso alla luce delle stelle».
Immagine di copertina: Christophe Desjardins