Chi segue questi interventi sul sito di Amadeus, o la rubrica “All’Opera” che tengo sulla versione cartacea della stessa testata, sa bene che il mio approccio all’opera è fondato sull’esigenza di allargarne i confini. Come potevo non andare a vedere il nuovo allestimento della Damnation de Faust di Berlioz in programma al Teatro dell’Opera di Roma?
Sono dunque riuscito a essere presente all’ultima recita, quella del 23 dicembre. Meno male che ce l’ho fatta! Tutti sappiamo quale straordinaria importanza abbia avuto il “teatro immaginario” di Berlioz nella drammaturgia musicale moderna. Partiture come il Roméo et Juliette e La damnation de Faust sono opere senza scena, pensate per una rappresentazione puramente “mentale”, ma sono opere (paradossalmente) teatralissime. Le definirei opere “catacretiche”, vale a dire opere che non sono opere. Proprio per questo irrinunciabili. La produzione romana – direttore d’orchestra Daniele Gatti, regista Damiano Michieletto – ha affrontato questo paradosso con un’intelligenza musico-drammatica davvero eccitante. La concertazione di Gatti, antimimetica e rarefatta, dava l’idea di qualcosa che non si svolgeva “in tempo reale” ma che accompagnava la rappresentazione in modalità narrativa.
D’altronde Berlioz fa intervenire la voce del narratore (come in un oratorio) quando, alla fine del Pandemonium, fa cantare a solo sei bassi del coro le seguenti parole: “Alors, l’enfer se tut. L’affreux bouillonnement de ses grands lacs de flammes, Les grincements de dents de ses tourmenteurs d’âmes Se firent seul entendre; et dans ses profondeurs Un mystère d’horreur s’accomplit”. E, per finire l’alessandrino, Berlioz aggiunge, stavolta facendola intonare da tutto il coro, ma in pianissimo, questa esclamazione che rimette in moto la modalità rappresentativa: “O terreurs! ”. Un momento cruciale reso da Gatti con un’intensità rivelatrice. Peccato solo che delle idee così estreme e sofisticate richiedessero un livello esecutivo che né il coro né l’orchestra, pur encomiabili, erano in grado di realizzare.
La regia di Michieletto, quantunque non esente da qualche accesso di horror vacui, ha optato per una drammaturgia della media(tizz)azione che è risultata del tutto pertinente e in linea con le scelte di carattere musicale. L’impianto scenico (bellissimo), aveva al centro uno screen sul quale si proiettava talvolta quello che accadeva in scena ripreso con una steadycam (in tempo reale), talaltra immagini del passato, in flashback. Altre volte ancora vi comparivano scene provenienti dal backstage (in stile reality). Risultato: un dépaysement continuo e inquietante, in cui la de-realizzazione multimediale dello spettacolo metteva continuamente in crisi i presupposti stessi della comunicazione: è una narrazione o una rappresentazione? La realtà “vera” è quella sul palcoscenico o quella mediatizzata? Eccetera.
Tale dépaysement era strettamente associato alla figura di Méphisto il quale, diversamente che in Berlioz, appare fin dalla prima scena dell’opera come onnipresente corruttore/manipolatore la cui azione passa sempre attraverso i media. Il modo in cui Alex Esposito ha incarnato questo personaggio-pilastro della regia di Michieletto (più che della partitura di Berlioz) è stato semplicemente perfetto, sia vocalmente che scenicamente. Anche la Margherita di Veronica Simeoni mi è sembrata molto notevole. Il solo Faust di Pavel Černoch, che comunque ha retto bene una parte difficilissima, non mi è sembrato del tutto convincente. Ma quando ci si trova di fronte a un’operazione così complessa e coinvolgente è perfino ridicolo (almeno per me) mettersi nei panni del recensore supercilioso.
Guardando (e ascoltando) questa Damnation de Faust si capisce perché, da quando (alla fine dell’Ottocento) si è deciso di dare una veste scenica al teatro immaginario di Berlioz, questo titolo sia stato così spesso presente nei cartelloni dei teatri d’opera. Esso ha aperto nuove strade alla drammaturgia musicale moderna. Devo dire che, pur ammirando l’estrosità di Michieletto, ho trovato talora velleitario o comunque non all’altezza del suo talento teatrale il sostrato drammaturgico/interpretativo delle sue regie.
Ora, anche su quest’ultimo punto incomincio a ricredermi. Mi pare infatti che questo lavoro possa costituire un passaggio fondamentale nella sua carriera e anche nel panorama della regia contemporanea (italiana). Ho l’impressione infatti che Michieletto stia maturando non solo importando chez nous lo stile del Regietheater alla tedesca, ma anche tentando di fondere insieme e riconfigurare due atteggiamenti registici finora poco compatibili: il rovente rovello critico-interpretativo di Strehler e il più cerebrale-concettuale rigore decostruttivo di Ronconi. Se ci riuscisse qualcosa succederebbe.