Incontro Lorenzo Viotti durante una delle prove della Gustav Mahler Jugendorchester con Gautier Capuçon, impegnati per il Bolzano Festival Bozen con due concerti, il primo con l’Ouverture da La forza del destino di Verdi, il Concerto per violoncello di Dvořák e la Sesta di Čajkovskij, il secondo con Im Sommerwind di Webern, il Primo Concerto per violoncello di Šostakovič, il Prélude à l’aprés-midi d’un faune di Debussy e la Sagra della Primavera di Stravinskij.
Il tour estivo della GMJO prevede alcuni grandissimi brani di repertorio, Sesta di Čajkovskij, Quinta di Mahler, Sagra della Primavera… Considerando che sono brani dalle molte e celebri interpretazioni, come ne crea una sua?
«Costruendola fin dall’inizio con calma ed attenzione. La più grande sfida è ciò cui lei si riferisce: far leggere la partitura con me, come se fosse nuova e non come l’abbiamo ascoltata per tutta la nostra vita. Ultimamente, ad esempio abbiamo la tendenza a suonare tutto estremamente espressivo, ma nel farlo perdiamo completamente la trasparenza e la chiarezza del testo. Prendiamo la Quinta di Mahler, un brano in cui si può notare quanto l’autore si sia concentrato sulla polifonia. Se vuoi rispettare fedelmente la partitura, hai tantissimi dettagli che devono essere fatti sentire. Ad esempio la caratteristica inuguaglianza ritmica, che è qualcosa che non puoi spiegare matematicamente, che ha le sue radici nelle campagne austriache. Oppure il corale che si apre nel Finale. All’inizio i ragazzi lo suonavano con quello che definisco un approccio alla Brahms, o alla Bruckner: molto espressivo e con un suono rotondo. Ed invece non c’è scritto espressivo, né legato: ci sono degli accenti, Mahler chiede un suono più diretto, più asciutto, ma non aggressivo. È un modo di cantare che arriva quasi dall’osteria, un approccio diretto, di una grezza generosità e con un po’ di vino in corpo, eppure incredibilmente limpido. Con la Sagra invece è completamente diverso. Prendiamo l’inizio, in cui tutti credono di avere un solo, ma in realtà bisogna suonare ciò che c’è scritto esattamente come c’è scritto. Questa è la differenza: con Mahler non devi suonare ciò che c’è scritto, ma ciò che esso significa; con Stravinskij, devi suonare ciò che c’è scritto. Il significato poi ti arriva da quello. La sfida con Stravinskij è stata anche costruire una Sagra non romanticizzata. L’inverno è terminato, inizia la primavera, ma una primavera nuda e cruda, senza abbellimenti, con totale chiarezza e trasparenza. Questa trasparenza è stata molto interessante e al contempo molto pesante per gli orchestrali. Ci sono così tanti dettagli da evidenziare e non è solo un suonare forte, forte e ancora più forte».
Come si costruisce in qualche settimana un’orchestra da oltre 120 musicisti sì ottimi, ma che non hanno mai suonato tra di loro?
«Esortandoli ad ascoltarsi l’un l’altro. Ad esempio, abbiamo già fatto tre concerti. Al primo ho condotto molto. Al secondo ero sul palco, ma ho cercato di fare il meno possibile. Al terzo non sono nemmeno salito sul palco e ho fatto eseguire Verklärte Nacht agli archi senza direttore. Questa è stata anche un’opportunità per loro di suonare facendo affidamento al proprio orecchio, cosa che permette spesso di produrre un suono migliore. Costruire un’orchestra, quindi, è un processo. Ovviamente per Stravinskij o Mahler devo esserci, ma come si nota già nei due Concerti per violoncello, molte cose non le devo nemmeno battere: i ragazzi si ascoltano e suonano insieme».
Parlando dei due Concerti, come si crea una relazione tra direttore e solista e com’è avvenuto questo con Gautier Capuçon?
«Sa, con un solista puoi costruire un suono, puoi costruire una strategia, ma non puoi sapere cosa succederà con l’orchestra. Quindi, semplicemente, fai. E speri che ci sia intesa, ma è qualcosa che non puoi prevedere! Per mia grande fortuna, con Gautier parliamo la stessa lingua musicale. Ho diretto entrambi i Concerti molte volte e il rapporto può essere complesso, ma con lui è tutto così spontaneo, semplice, anche il suo modo di gestire il rubato è così puro e chiaro. Pensi a Dvořák: siamo abituati a sentirlo in un certo modo, con quel vibrato e quel rubato. Per me è terribile. Se suoni Dvorak, devi pensare a Brahms, se suoni Brahms devi pensare a Schumann e non il contrario. Con questo in mente, provo sempre a prendere il via dalla parte, anche quando poi ricerco più spazio, più libertà. L’importante è non cambiare l’essenza della musica: e con Gautier, su questo, credo ci sia davvero un’ottima intesa».
Certamente è una bella sfida. Con un’orchestra così grande, come gestisce gli equilibri tra compagine e solista?
«La risposta è sempre quella: suonare esattamente ciò che c’è scritto. A volte, leggendo la parte, è capitato che si suonasse un pianissimo, ma non la sfumatura che dovrebbe provenire da quel pianissimo. Certo, è un pianissimo. Se lo compari con il mezzopiano di prima, è un pianissimo, non c’è dubbio: ma ora, proviamo a suonare pianissimo in modo da far sentire solo il timbro e non la dinamica. È qualcosa per cui puoi dare un’immagine, un esempio, un consiglio tecnico, ma poi è sempre e comunque una questione di ascolto. Quindi ho chiesto agli orchestrali di cantare con intimità, di suonare un pianissimo che è attivo nell’ascolto del solista e passivo nell’esecuzione. E così l’effetto è stato raggiunto: l’orchestra si è trasformata in un tappeto di colore, un qualcosa di improvvisamente statico. Su come raggiungere quest’effetto non c’è alcuna regola. Ognuno è nella propria cucina e nella propria cucina può scegliere come combinare i diversi ingredienti. Se non lo ottengo nel modo che suggerisco, lo cerco in un altro e in un altro ancora, finché non riesco ad ottenere ciò che desidero. Solo allora possiamo andare avanti».
Al di fuori di questi concerti con la GMJO, come si struttura il suo rapporto con l’orchestra? Come ne ottiene il rispetto?
«Non mi interessa che mi rispettino. Credo che proprio l’idea sia sbagliata. Se accetto di andare davanti con un’orchestra è perché credo di essere pronto a presentare quel programma con loro. La scelta del programma quindi è importantissima e dipende da molti fattori, sia la loro stagione, sia le loro caratteristiche e, non ultimo, il desiderio di costruire dei programmi con un significato, che escano dal repertorio orchestrale standard. Ad esempio provo spesso a proporre brani che quell’orchestra non è abituata a suonare. Ed è qualcosa che potrebbe danneggiare me in primo luogo! Ma potrebbe avere anche l’effetto contrario. Dopotutto anche se porto la Prima di Mahler cercherò di non imitare le incisioni che tutti conosciamo e di ripartire da capo con l’orchestra. E questa può anche odiarti durante le prove. Va bene, è qualcosa che posso accettare. Ma possono anche rispettarti dopo il concerto, se hanno sentito una differenza nel loro modo di suonare. Ecco, quello è il mio obiettivo. Non faccio questo lavoro per essere amato. Se provando con un’orchestra scegliessi di farli uscire prima perché so che così mi apprezzerebbero di più, per me significherebbe non essere un direttore, ma solo cercare di avere il loro consenso totale. Che non è possibile quando si ha un ruolo di leadership. Ma avere questa leadership significa anche rispettare in primo luogo l’orchestra e accogliere le loro idee, ciò che mi propongono come suono, come scelte musicali, ritmiche, tutto. Io poi mi adatto a ciò che ho di fronte, vi stabilisco un punto d’appoggio e cerco di costruire qualcosa di nuovo, che sarà diverso per ogni orchestra che dirigo. Anche perché spesso il tempo è poco e cerco di mettere in chiaro fin dall’inizio che la prima prova per me vuol dire ascolto e strutturazione di un piano di lavoro. È un equilibrio molto delicato da ottenere».