Il 24 novembre, al Teatro Lirico di Cagliari, è andata in scena La Ciociara, opera che ha già avuto un ottimo riscontro negli USA, adesso presentata per la prima volta in Europa.
Il M° Marco Tutino racconta come per lui questa esecuzione abbia una valenza particolare:
Oltre che della musica, sono coautore del libretto. Ma il libretto è in lingua italiana: gli spettatori statunitensi non hanno quindi potuto godere di quella fruizione immediata per me così importante. Questa sarà la prima volta nella quale il fonema sarà portatore, oltre che di suono, anche di espressione.
La Ciociara è stata commissionata dalla San Francisco Opera, dove è stata messa in scena nel 2015 col titolo Two Women, riscuotendo un grande successo di pubblico e di critica. In questi due anni ha apportato qualche modifica all’opera, sia per una sua maturazione personale che per adattarla alle scene del Vecchio Continente?
Dettagli, piccoli dettagli, ma c’è un particolare ricco di significato. Abbiamo modificato leggermente la scena del primo rapporto sessuale fra Giovanni e Cesira, sotto i bombardamenti, quasi all’inizio dell’opera. In America sia il pubblico che la critica hanno recepito questo episodio come uno stupro, ma in realtà non è così nel libro, nel film e neanche nelle nostre intenzioni. Cesira dice “no”, è vero, ma in realtà quel “no” diventa un “sì”; magari poi si pente del gesto compiuto, però il rapporto è consensuale. È importante sottolinearlo, perché se noi interpretiamo subito quell’atto come una violenza il personaggio di Giovanni ne risente, diventa un “cattivo” granitico, a tutto tondo. Invece Giovanni si evolve durante la vicenda, diventa malvagio per vari motivi, la gelosia innanzitutto, ma all’inizio lui ama fortemente Cesira, prova per lei un sentimento reale, e proprio questo amore darà ancora più risalto alla spietatezza finale.
Ci ha anticipato la trama; ma d’altronde La Ciociara è un soggetto ben noto sia per il libro di Alberto Moravia sia, soprattutto, per il celeberrimo film di Vittorio De Sica. Come si è sentito dal punto di vista morale a doversi misurare con questi due mostri sacri?
In effetti il peso dei confronti è stato molteplice, sia quello del romanzo, molto importante per la letteratura italiana del dopoguerra, che del film, che è valso un Oscar alla protagonista, Sofia Loren. In più era la prima volta, dopo La Fanciulla del West, che un teatro americano commissionava un’opera ad un compositore italiano; avere come diretto antecedente Giacomo Puccini non è stato di certo semplice e ha comportato una grande responsabilità. Gli americani mi hanno chiesto inoltre di rispettare quel linguaggio e quella tradizione, di scrivere un’opera “italiana” nel vero senso della parola: conservare quel pensiero e quel modo di comunicare innestando, tuttavia, strati su strati di codici musicali ed espressivi diversi sino a creare un metalinguaggio, è stato complesso e stimolante.
Lei, in un’intervista, ha detto di non concordare con i critici americani che hanno definito la sua opera “pucciniana”; il M° Nicola Luisotti, che ha diretto Two Women a San Francisco, usa invece il termine “post pucciniana”. Insomma, Puccini è sempre presente quando si parla della sua musica.
I critici americani si sono fermati al primo impatto, come spesso succede nella critica musicale. È un atteggiamento disonesto dal punto di vista deontologico, perché un critico ha il dovere di approfondire, altrimenti rimane un semplice spettatore. Io non amo le critiche vuotamente positive, trovo che la critica debba sempre essere svolta con consapevolezza. Definire la mia opera “pucciniana” non è preciso, mentre “post pucciniana” è un’approssimazione più corretta: pur essendoci degli elementi che possono ricordare quel genere di melodramma, il linguaggio melodico, armonico, ritmico sono completamente diversi. Non c’è quasi nulla che possa essere contestualizzato altrove e non può che essere così, visto che dopo Puccini ci sono stati Leonard Bernestein, Sergej Prokofiev, Dmitri Shostakovich, Benjamin Britten. Anche se in Italia la tradizione operistica si è fermata, nel resto del mondo questi geniali drammaturghi hanno apportato invenzioni e innovazioni al genere e non si può fare a meno di studiarli, capirli e assimilarli facendoli propri.
Oltre che compositore, lei ha avuto importanti incarichi all’interno delle istituzioni teatrali, ma è anche scrittore. E nel suo libro Il Mestiere dell’aria che vibra racconta della sua passione per la musica, nata quando era ragazzo. Vede la stessa passione anche nei giovani di oggi? Il sistema dei Conservatori alimenta questa fiamma o dovrebbe fare di più?
I Conservatori italiani potrebbero stimolare questa fiamma ma sono stati imbrigliati in una riforma sbagliata che ha trasformato l’insegnamento della musica in una questione burocratica, parcellizzata, senza più alcun contatto col dato artistico. Noi docenti siamo costretti a svolgere le funzioni propedeutiche, generiche e gli artisti che insegnano in Conservatorio non sono sfruttati per le loro doti e peculiarità, ma devono fornire una massa di nozioni a una massa asettica e depersonalizzata. D’altra parte anche gli studenti sono demotivati, mi è capitato spesso di avere alunni che mi chiedessero consigli per poter fare mestieri come, ad esempio, il compositore di colonne sonore, e poi si ritiravano perché non trovavano alcun riscontro nei programmi. Bisognerebbe dare una svecchiata alle istituzioni e ricordare che, nel mondo attuale, non esiste più solo la figura del musicista, ma sono nate una serie di professioni inerenti comunque al mondo musicale che dovrebbero essere prese nella dovuta considerazione.