Adesso che sembra lentamente riprendere un’idea di normalità, che si torna ad ascoltare musica dal vivo e la paura sembra prudentemente passare, si contano anche tra i musicisti le vittima della pandemia che ha sconvolto il mondo. In Brasile il 25 marzo scorso a 66 anni, vittima del Covid -19, a San Paolo è morto anche Martinho Lutero, direttore di cori e di orchestre, brasiliano e milanese d’adozione.
Luca Cerchiari, musicologo e docente universitario che prima del lockdown lo aveva chiamato allo IULM per insegnare Etnomusicologia nell’ambito del Master in “Editoria e produzione musicale” che lui dirige, aveva tenuto con lui per Amadeus una conversazione-ritratto tra esperienze passate e progetti “spezzati”, che – ancora inedita – pubblichiamo qui in forma di intervista “postuma”.
Quasi un profeta della vocalità collettiva, Martinho Lutero Galati de Oliveira conduceva un’esistenza votata alla dimensione spirituale, alla curiosità internazionale e alla tensione euristica verso i repertori musicali. Direttore di cori e orchestre, instancabile ricercatore-interprete di partiture inconsuete e di composizioni affascinanti a cavallo tra scrittura e oralità, tra ambito colto e lessico popolare, tra Vecchio e Nuovo Mondo, “Lutero” è un nome noto nel nostro ambiente musicale perché da tempo divide la sua vita professionale tra San Paolo e Milano, tra la Presidenza dell’Associazione Cori Brasiliani e l’attività di direttore di un ensemble intitolato a un brano di Luigi Nono, Il canto sospeso, per il suo coro divenuto, più sinteticamente, Cantosospeso.
«È stato proprio il compositore veneziano, del quale fui allievo verso la metà degli anni ’80», esordisce il Maestro, «a ispirare le linee-guida linea del mio impegno nella coralità. Una composizione di Nono, A floresta é jovem e cheja de vida, e più in genere la sua riflessione sui rapporti tra la musica occidentale, che Nono descriveva racchiusa in un tunnel senza uscita, e la sua necessaria proiezione verso quella delle altre culture, a suggerire la messa a fuoco delle scelte di repertorio dei miei cori (un altro, attivo in Brasile, è intitolato a Martin Luter King). Ma non credo che avrei potuto imboccare questa strada senza la precedente, e dirompente, esperienza professionale, quella di incaricato della mappatura musicale del Mozambico, destinata all’Unesco e attuata in otto anni di residenza nel Paese africano su commissione dall’allora Ministro della cultura Silvio Zambine, conosciuto durante un mio periodo di studio alla Sorbona di Parigi. Occuparmi della musica tradizionale di questo Paese con radici culturali arabe e portoghesi è stata l’occasione per entrare nel mondo straordinario della musica etnica e della sua riflessione teorica, l’etnomusicologia. In questo, la conoscenza di grandi musicologi africanisti quali Gerhard Kubik e Hugh Tracey si è rivelata fondamentale. Gli anni trascorsi in Mozambico, nella città di Maputo ma soprattutto nella foresta, tra mondo vegetale, animale e insediamenti umani, mi hanno portato alla progressiva conoscenza di un mondo molto lontano da quello delle mie precedenti e consolidate esperienze di direttore di cori e orchestre. Ero incanalato in un’attività di interprete di repertori eurocolti molto interessanti, e tuttavia proposti in un ambiente stereotipato e caratterizzato da una ritualità che condividevo solo in parte».
Questo ci porta all’inizio del suo percorso formativo, e anche della sua vicenda personale. «Sono nato a Minas Gerais, in Brasile. Nel mio ambiente familiare la musica aveva un ruolo importante: mio padre, pastore protestante, suonava l’organo in Chiesa; mia nonna, di origine elvetica, praticava a sua volta il violino, e il violino è diventato anche il mio primo strumento. Ho studiato musica, direzione orchestrale e corale, al Conservatorio Torquato Tella di Buenos Aires, all’epoca diretto da Alberto Ginastera; al tempo non esisteva ancora, in Brasile, un Istituto superiore di musica come quello argentino. Poi mi sono iscritto all’Università USPI di San Paolo, conseguendo la laurea in Storia moderna. La frequentazione dell’USPI mi ha permesso di entrare in contatto con l’ambiente parigino, e per un anno ho avuto modo di risiedere nella capitale francese e di fare incontri e conoscenze fondamentali, come quelle con il compositore Pierre Boulez, col quale ho studiato privatamente, e del musicologo Jacques Chailley, all’epoca professore all’Università La Sorbona. Rientrato in Brasile, la mia vita sembrava definitivamente segnata dall’impegno nella direzione corale e orchestrale: a venticinque anni sono divenuto Assistente del Direttore del Teatro municipale di San Paolo. Ma poi, ecco la svolta, il passaggio dalla musica eurocolta a quella etnica, favorito e maturato anche da un ulteriore percorso di studi, da me effettuato a Budapest, in Ungheria, presso l’Istituto Kodály, dove ho avuto come mentore il compositore magiaro György Kurtág, che mi ha fatto scoprire il fondamentale lavoro di raccolta e analisi del canto popolare svolto da Béla Bartók e Zoltán Kodály , e che in un secondo momento mi ha messo in contatto con Nono».
Martinho Lutero ha poco più di 66 anni. Il suo volto e il suo corpo trasmettono un senso di saggezza ed equilibrio, di apertura a una serena e disinteressata dimensione relazionale con gli altri. Il volto reca i segni delle origini indiano-americane. La gestualità direttoriale è di stampo eurocolto, mentre il modo di cantare e di provare le pagine corali e strumentali svelano una contenuta ma efficace teatralità, e una capacità di mescolarsi pariteticamente coi suoi musicisti, professionisti o amatori che siano. Per questo, “Lutero” è molto apprezzato. E proprio la dimensione corale sembra essere, per lui, l’ambito sociale ed espressivo più adatto per perseguire, si diceva, un obiettivo quasi missionario, portare la gioia e il potere energizzante e purificante dell’esperienza musicale verso chiunque ne voglia essere partecipe. Quanto alle scelte di repertorio, la sua visione internazionalista lo spinge a spaziare dalla musica dell’Europa rinascimentale a quelle dell’africa subsahariana, dalle pagine sacre a quelle più spiccatamente profane del repertorio barocco e classico. È una linea di ricerca e di proposta esecutiva che, nel mondo, lo accomuna ad alcuni illustri colleghi quali il catalano Jordi Savall e l’americano Joel Cohen, maestri nel proporre con modalità inedite luminosi reperti della tradizione strumentale e vocale dell’Europa e del Nuovo Mondo. In questo, Martinho Lutero Galati de Oliveira può vantare recenti tappe significative: una l’ha portato a proporre, con gli strumenti a fiato della civica milanese, un nuovo arrangiamento brasiliano della straordinaria opera Treemonisha di Scott Joplin (tra l’altro oggetto di una altrettanto nuova, per criteri filologici e scelte di organico strumentale, realizzazione discografica a cura di Rick Benjamin, New World Records). L’altra, restando in America ma focalizzandosi sul Brasile, l’ha condotto a proporre in due sedi diverse (l’Università di Milano-IULM e la Chiesa del Carmine), lo scorso novembre (2019), la Missa de Alcancuz del compositore nordestino Danilo Guanais.
Una composizione contemporanea, ma nella forma tradizionale della Messa, e cantata in latino. Gli domandiamo quali elementi “altri” la accomunino alla loro linea di ricerca. «Sostanzialmente il fatto che questo brano di Guanais, tra l’altro ispirato al tema della siccità, della carenza di acqua in Brasile e nel Mondo, contiene elementi tipici della tripartizione culturale brasiliana, ossia tanto della tradizione africana quanto di quella indio-americana. Essi sono esplicitati in termini performativi dagli apporti di due virtuosi che affiancano il Coro Cantosospeso e il collegato quintetto d’archi, il fisarmonicista Lulinha Alencar, un virtuoso che incide da tempo anche per l’etichetta Ecm, e il percussionista Caito Marcondes, già allievo del compositore tedesco Hans-Joachim Koellreuter, che per inciso è stato anche il maestro del pianista e autore Antonio Carlos Jobim, l’indimenticato creatore della bossa-nova».
Lutero vive in Europa da molti anni, e i suoi gusti non solo musicali sono quindi spiccatamente orientati anche alla nostra tradizione espressiva e di pensiero. Gli chiediamo quindi quali libri e quali film gli sono stati di particolare significato. «Cito tre libri e tre film. Tra i libri, un viatico fondamentale è stato il Don Quixote di Manuel de Cervantes, mentre per le tematiche antropologiche un ruolo decisivo ha avuto Tristi tropici di Claude Levi-Strauss. Altrettanto rilevante, altrimenti, è stato la lettura di Il paradiso perduto di John Milton. Tra i film fondamentali della mia esperienza di spettatore cito Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, Teorema di Pier Paolo Pasolini e Farenheit 451 di Francois Truffaut”».
La vocazione socializzante e pedagogica di Martinho Lutero, che ha al suo attivo diverse pubblicazioni, si è tradotta anche in una selezionata attività di insegnamento musicale, pratico e teorico. «Un’opportunità preziosa, mi è appena stata offerta dall’Università di Milano-IULM: insegnare Etnomusicologia. La devo a un corso post-laurea di quell’ateneo, denominato Master in “Editoria e produzione musicale”, giunto al sesto anno di vita. Allo IULM, dove sono subentrato al collega Fabio Jegher, e dove ora è nato un Coro, diretto da Edoardo Gambel, mi attende la possibilità di riproporre con racconti, ascolti e visioni la mia esperienza di ricercatore “sul campo” in Africa. Che mi auguro di riuscire a pubblicare anche in un volume, cui penso da anni. E che conto di estendere, programmaticamente, a tutte le musiche etniche del mondo, sviluppando una ricognizione delle radici più antiche e autentiche dell’esperienza sonora dell’uomo, unitamente al riconoscimento e all’analisi dei principali strumenti e gruppi strumentali della musica mondiale».
Luca Cerchiari