Gradevole e ancora attuale, Il Don Pasquale di Donizetti è andato in scena alla Scala. Tra i protagonisti, un bravissimo Ambrogio Maestri. Buoni i cambi di scena; ben scelto il quartetto canoro

Gli Italiani, asserviti, inquisiti, governati dal frustino dei caporali austriaci non hanno molta voglia di ridere». Un’illustre rivista francese così commentava il declino dell’opera buffa italiana, salutando il successo del Don Pasquale (1843). Donizetti lo aveva voluto in abiti contemporanei, anzi, abiti romani alla Giuseppe Gioacchino Belli; Don Pasquale viene da Corneto, il paese da dove provengono nel mondo del Belli le mignotte cornificanti i mariti.
Una commedia attuale
Il successo inaspettato del Don Pasquale divenne l’epitome di un genere, declinante verso il mezzo-carattere. Il vecchio celibatario che sposa la giovane capricciosa che se la intende col nipote, provoca sorrisi ma soprattutto affettuosa malinconia. Anche oggi gli italiani hanno poco da ridere, fra diarchie rebus e insofferenze a gioghi e frustini di marca europea. Dunque l’idea della nuova produzione scaligera che ci riportava alla semplicità della commedia cinematografica del dopoguerra è parsa se non nuova, gradevole.
Nella messa in scena di Davide Livermore l’anziano protagonista che si sposa quando muore l’edipica madre (un fantasma scatenato con le fattezze di Tina Pica) dovrebbe ricordare Aldo Fabrizi. Ora, massimo rispetto per la simpatica stazza scenica del giustamente festeggiato Ambrogio Maestri; ma l’analogia con l’umanità del colossale attore romano è rimasta sulla carta. Tanto quanto quella degli altri (Norina/ Lorella De Luca, Ernesto/Mastroianni ecc.).
Il meccanismo dei cambi di scena funzionava bene fra interni (la casa del promesso sposo) ed esterni (il giardino fra ruderi, lucciole e avventori). Riuscita la morale finale, quando il quartetto dei protagonisti si alzava a volo sulle sedie della giostra (il “calcio in culo” dei nostri luna park) e Don Pasquale, rimaneva dileggiato a terra dal suo pondo.
Quartetto vocale ben assortito
Ne facevano parte l’imponente Maestri, la primeggiante Rosa Feola (Norina), la squillo sicuro di René Barbera (Ernesto); spigliato e un po’ sommario nelle cadenze, invece, Mattia Olivieri (Malatesta). Quartetto ben attrezzato per passare l’infida acustica scaligera e le sonorità del golfo mistico che, nelle mani di Riccardo Chailly, guardavano non all’Austria coeva della spumeggiante famiglia Strauss, ma a quella di Bruckner (particolare fonico non sfuggito in piccionaia).
Nella passerella finale sipario ad personam per Maestri, ovazionato da tutta la Scala. Poi tutti in gruppo, “come al Giro d’Italia”, secondo la definizione di un comprimario di sopraffina ironia, per ricevere l’applauso collettivo.
Giovanni Gavazzeni