Sebbene prendendo in prestito le parole del regista Ole Anders Tandberg, “oggi viviamo in un mondo in cui le più grandi atrocità umane sono divenute all’ordine del giorno”, il teatro d’opera può mai esser pensato come luogo idoneo di sensibilizzazione a tutto ciò?
Un esempio di risposta a tale quesito – vista una consueta tendenza, sempre più ricorrente di questi tempi – potrebbe essere forse la Carmen dello stesso Tandberg, che al Deutsche Oper di Berlino, ha riscontrato pochi pareri favorevoli con un pubblico rimasto particolarmente suggestionato dalle troppe e cruente scene di sangue, morte e membra penzolanti. Nonostante l’attesa di questa prima avesse suscitato parecchia curiosità. D’altro canto non si può di certo dire che la Carmen del regista norvegese manchi di audacia: dai contrabbandieri qui esperti di traffico umano e mercanti d’organi – questi ultimi ben visibili in scena, che diventano persino mezzo sostitutivo alla cartomanzia. Infatti, Carmen nel terzo atto non consulterà i tarocchi ma bensì decine e decine di reni umani che le prediranno il futuro e quindi la morte – poi i numerosi bambini mascherati con crani da Dia de los Muertos secondo la tradizione messicana, che probabilmente fanno riferimento alla tratta dei minori proprio in Messico, a questi poi seguiranno anche i fantasmi danzanti degli uomini “sacrificati” per i fini dell’altro commercio.
Scene di violenza che hanno inizio già nel primo atto quando i soldati imbracciano Kalashnikov e si lasciano andare con movenze a sfondo sessuale, queste ultime perpetrate contro una malcapitata Micaela che si salva per un pelo dall’esser vittima di violenza carnale. Carmen, che indossa un tipico abito rosso da flamenco, compare sfumacchiando un qualcosa, seduta sotto la carcassa di un toro a testa in giù e grondante di sangue. Ed è, infatti, proprio il colore rosso del sangue, elemento che accomuna indistintamente uomini e animali, quella costante onnipresente nell’idea registica. Persino il sipario suggerisce una rete sanguigna: un occhio scuro, di dubbia provenienza, tra scarti di carne e ossa, fissa il pubblico. Scene che tuttavia talvolta sfiorano anche il grottesco, come ad esempio, quando, un tutt’altro che sensuale Escamillo, farà dono alla Carmencita di due giganti attributi di toro, come trofeo o forse come Criadillas da mettere ai fornelli (assecondando la tipica usanza spagnola!).
Un successo meritatissimo è invece spettato ai tre protagonisti: Carmen, Micaela e Don José. La prima, interpretata dalla bravissima Clémentine Margaine, le cui doti vocali in qualità di tale ruolo, sono ormai ben note da tempo, e a tal proposito, infatti, non necessita di presentazioni. La sua è certamente una vocalità inconsueta, dal timbro possente che va ben oltre le caratteristiche di un comune mezzosoprano e l’Habanera, infatti, corre tanto il rischio di passare tra le più memorabili. Anche fisicamente, lei è Carmen, senza alcun indugio!
E sembra proprio essere un cast di voci poco comuni questo, anche Charles Castronovo (Don José) ha conquistato il pubblico addirittura con qualche applauso in più. Il bravo tenore statunitense ha tanto l’aria del bravo ragazzo di origini siciliane, minuto di statura, ma la sua La fleur que tu m’avais jetée è tutt’altro che modesta. E non solo tecnicamente. Insomma, un’accoppiata perfetta, forse tra le migliori che la Margaine abbia mai avuto sino a oggi. Ci si toglie il cappello però anche di fronte alla figura che più soffre in quest’opera, ossia la brava Heidi Stober, che sebbene vesta i panni della più sfortunata Micaela, ha una vocalità veramente pregiata e ben bilanciata. È, invece, un torero che nasconde i lati di una tendenza “al femminile” sotto i panni più rudi e istrionici di un matador, Markus Brück (Escamillo). Un ruolo probabilmente poco attinente alle reali potenzialità di questo cantante. Il povero Brück, oltretutto, appare particolarmente mortificato dall’appariscente vestito giallo con calze rosa, non certo gradevole alla vista. Buon supporto, invece, quello di Frasquita e Mercédès, ma stessa cosa si può dire per il tenente Zuniga, rispettivamente Nicole Haslett, Jana Kurucovà e Tobias Kehrer. Complimenti per la buona dizione francese a Ya- Chung Huang (Remendado) in sintonia con Dean Murphy (Dancairo). Un po’ eccentrica, invece, la direzione di Ivan Repušić.
Un cast che, salvo qualche eccezione, assicura una indubbia qualità. Certo è però, che la troppa violenza forse più che sensibilizzare guasta, e allontana un pubblico che, per dirla tutta, infondo, a teatro non va forse per assistere a quello che i telegiornali probabilmente occultano nell’ombra di un presunto perbenismo mediatico ormai risaputo.