Diritto d’autore: molti citano da altre fonti ma serve legge sul fair use

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Nel prossimo festival Milano Musica (il 28 e 29 ottobre) i cinque compositori italiani del gruppo /nu/thing (Andrea Agostini, Daniele Ghisi, Raffaele Grimaldi, Eric Maestri e Andrea Sarto) proporranno un esperimento di opera collettiva.

Il loro progetto, intitolato I mille fuochi dell’universo, mira a creare una vera interconnessione compositiva, a mettere in comune competenze, sensibilità, esperienze diverse, con una scrittura senza divisioni “verticali” degli oggetti musicali, sperimentando una nuova forma di creatività che ci interroga anche sul senso dell’opera d’arte nel nostro tempo. I cinque compositori hanno trovato un modo di comporre “in parallelo”, lavorando anche via skype, condividendo partitura e parte elettronica su una cartella di dropbox, in modo che ciascuno possa modificare e sovrascrivere spontaneamente il pezzo.

L’idea è quella di sperimentare una nuova organizzazione e diffusione delle idee musicali, di instaurare un circolo virtuoso, che permetta di creare una sorta di «intelligenza collettiva». Un’idea in parte mutuata da alcune riflessioni di due antropologi britannici: Alfred Gell, che nel suo saggio Art and Agency (1998) ragiona sul fatto che l’oggetto d’arte è per sua natura qualcosa di interpersonale, collegato in un insieme di relazioni temporali e spaziali; e Georgina Born che ha sviluppato il concetto di «relayed creativity», descrivendo le opere d’arte come “oggetti distribuiti”, come una specie di “popolazione” che reifica dei processi cognitivi collettivi.

Ma questo esperimento, nel quale i cinque compositori rinunciano alla propria individualità, appare anche come un atto politico, che va contro i paradigmi stabiliti della produzione artistica e del ruolo del compositore nella società, che suggerisce un nuovo modo di pensare i processi compositivi, che solleva anche il tema del diritto d’autore. C’è una sensibilità diffusa su questo tema tra i compositori di oggi. Basti pensare a Johannes Kreidler, che usa spesso nelle sue composizioni citazioni, frammenti di musiche pop, e che si confronta in maniera caustica con problemi della identità, della proprietà, del copyright nell’era digitale, rompendo sempre gli schemi, cercando sempre gli estremi: in Product Placements (2008) ha ad esempio compresso, in 33 secondi, 70.200 citazioni musicali – una specie di provocazione nei confronti della GEMA (la SIAE tedesca).

Sulla possibilità di creare un’eccezione “fair use” (“uso giusto”) al diritto d’autore, riflette invece Daniele Ghisi: «[…] a un dato momento, dobbiamo decidere come società che c’è anche un interesse collettivo e una “proprietà collettiva” dell’opera musicale. Non sarebbe il caso di avere una legge che permetta davvero l’utilizzo dei i frammenti dei Beatles nel Requiem di Zimmermann; o che tuteli il collage di citazioni nel terzo movimento di Sinfonia di Berio; e così via? La maggior parte dei compositori accoglie nel proprio scrivere citazioni o materiale proveniente da altre fonti: i due casi che ho citato sono emblematici, e potrebbero essere tranquillamente oggetto di denuncia: solo che, si dirà, il nostro mondo non genera abbastanza mercato per preoccuparcene. Ma questa non è una risposta, è nascondere la testa sotto la sabbia: forse che Zimmerman, Berio, e tutti noi, siamo malviventi che strisciano al bordo della legge? Non ha alcun senso. E non sono il solo, naturalmente a pensarla così; questa battaglia ha radici ben note, dalle dispute dei “Plunderphonics” negli anni Ottanta in poi (Recentemente è uscita persino una graphic novel che ne parla: “Theft: a history of music”).

Scrivere a partire da materiale di altri è un’esigenza più che legittima. Il musical borrowing è antico come la musica, dai quodlibet al sampling, dalle messe parodia al turntablism. Non si tratta di rubare, si tratta di “prendere in prestito”, di trattare con rispetto e cura, e di restituire alla collettività in un oggetto di senso completamente diverso. Solo in tempi recentissimi abbiamo deciso che per usare liberamente materiale scritto da altri bisogna aspettare la loro morte più una quantità indecente di anni (cosa che è pure una follia, ma questo è un discorso che non vorrei aprire ora! una cosa alla volta…). Si tratta di una vera e propria contraccezione intellettuale, cui una legge sul Fair Use dovrebbe porre rimedio, stabilendo chiaramente (più chiaramente anche di quella americana) che sono leciti utilizzi accademici, didattici, di satira, e così via; ma anche che l’utilizzo di partiture e audio, entro certi limiti, deve essere permesso ai compositori, senza ambiguità.

E i limiti devono essere chiari: compositivi, ma anche più concretamente temporali! Dobbiamo dirci che al di sotto di una certa dimensione non possiamo preoccuparci del problema: se uso mezzo secondo di Michelle in un pezzo di quattro ore, sono potenzialmente soggetto a problemi legali: ha senso? Non esistono le virgolette in musica! Se gli artisti seguissero il copyright alla lettera, capolavori come il videomontaggio di Marclay The Clock non avrebbero mai visto la luce: ha senso? Certo che no. Serve una legge sul Fair Use che tuteli tutti questi casi, emblematici di un utilizzo “giusto” del materiale. E serve che questa legge sia il riflesso di una politica artistica che concepisce l’opera d’arte molto più come patrimonio comune che come gettone di questa o quella etichetta. Si tratta di un problema globale, me ne rendo conto, e come tale difficilmente si risolve nel proprio orticello. Immagino si debba provare ad affrontarlo quantomeno in un contesto europeo […]»

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