Giovedì 8 febbraio il Teatro Massimo di Palermo ha inaugurato la stagione sinfonica 2018 con un programma affascinante quanto particolare che ha toccato due straordinarie composizioni del primo ventennio del Novecento. Sul podio il direttore Gabriele Ferro, che ha diretto gli oltre novanta elementi dell’Orchestra del Teatro e le voci di Albert Dohmen (baritono) e Twyla Robinson (soprano).
Due imponenti pagine sinfoniche che indagano le profondità dell’animo umano tra la “sete di cose lontane” e il tentativo d’astrazione dell’identità: da un lato la Lyrische Symphonie op.18 di Alexander Zemlinsky, con il suo carattere spirituale, con le sue tinte psicologiche e sentimentali che tracciano un universo ricco di richiami formali e timbrici (si pensi alla suddivisione dei tempi sul modello del Das Lied von der Erde di Gustav Mahler e le influenze dei colori esotici della Salomè di Richard Strauss); dall’altro il profondo pensiero filosofico di Aleksandr Scrjabin che credeva fermamente nella musica quale mezzo per un fine estatico più che estetico e che nel Poème de l’extase op.54 (Sinfonia n.4) ha condensato il suo pensiero artistico creando un’eterna placenta preservatrice dalla caotica vita, riconducendo all’estatica immobilità dello spirito il vertice supremo della felicità.
La Lyrische Symphonie appartiene al periodo più maturo di Zemlinsky; composta tra il 1922 e il 1923 questa struggente pagina disegna un percorso ideale suddiviso in sette tempi modellati sui sette canti di Tagore. In questo grandioso affresco musicale il canto dei due solisti, come in un lungo dialogo, si alterna creando sezioni autonome ma saldate assieme attraverso interludi sinfonici realizzando nel complesso un unico e omogeneo disegno formale. Un gigante che si contorce sofferente sin dai primi versi che il baritono Albert Dohmen canta con voce sicura destreggiandosi benissimo tra il potente flusso sonoro dell’orchestra. Artista dalla lunga carriera internazionale Albert Dohmen vanta un vasto repertorio che va da Bach a Schönberg e si è esibito nei principali festival internazionali a fianco di direttori del calibro di Claudio Abbado (Wozzeck al Festival di Salisburgo nel 1997).
Altrettanto sicura è la voce del soprano Twyla Robinson che però in rari momenti soffre il volume orchestrale. Poca cosa se si considera il bel timbro morbido capace di esaltare sezioni di particolare espressività, come nel quarto tempo (“Sprich zu mir”), e la tecnica irreprensibile messa in mostra nelle asperità del sesto tempo (“Vollende denn”). Grazie alle sue caratteristiche vocali Twyla Robinson conferma la naturale predisposizione al repertorio tedesco dell’Ottocento e del primo Novecento, cui peraltro si dedica assiduamente (prediligendo particolarmente Mahler).
“Sete di cose lontane” – scrive Tagore – “e la mia anima erra nel desiderio di toccare il lembo dell’oscura lontananza”. Parole che segnano il punto di partenza di una parabola ideale che ci porta dal capolavoro del compositore austriaco a quello dello psichedelico Scrjabin. Se da un lato Zemlinsky, attraverso il profondo testo del poeta bengalese, pone l’accento su un problema esistenziale – «Dimentico che per volare non ho ali, che a questo pezzo di terra resto incatenato per sempre» – è nella partitura di Scrjabin che si rivela la strada maestra verso la felicità.
Il suo Poème de l’extase, composto tra il 1905 e il 1907, è un’onda di gioia e di libertà, una partitura scritta per un organico di proporzioni gigantesche che si sviluppa senza soluzione di continuità attraverso quattro movimenti fondamentali (Andante-Languido, Allegro, Lento, Allegro non troppo). In splendida forma l’Orchestra del Teatro Massimo, che ha eseguito in modo impeccabile tutto il programma, condotta dalla mano esperta di Gabriele Ferro la quale conferma ancora una notevole attitudine a questo genere di repertorio particolarmente espressivo.
Delude inizialmente il pubblico che, immotivatamente avido, riserva poco entusiasmo nei primi minuti dopo la chiusura della Lyrische Symphonie, salvo poi rinvigorire gli applausi alle successive entrate dalle quinte del direttore e dei solisti, correggendo il tiro (o probabilmente svegliandosi dal torpore) e poi confermando il successo della serata al termine del Poème.