È ormai divenuto fatto piuttosto inconsueto che Riccardo Muti diriga opere in teatro, con vere messinscene, e ancor meno in un teatro italiano. Può stupire, quando si pensa che il Maestro ha retto per decenni le sorti del Maggio Musicale Fiorentino, del Teatro alla Scala e – in tempi più recenti e brevi – il Teatro dell’Opera di Roma. Eppure, l’impegno con la Chicago Symphony Orchestra negli Stati Uniti e in tournée per il mondo assorbe molti mesi e, in fatto di regie, Muti si fida di pochissime persone. Tra queste figura la figlia Chiara, non perché sia sua figlia – anzi, i loro percorsi d’arte sono stati finora piuttosto distanti – ma perché ricrea quell’esempio di Giorgio Strehler (alla cui scuola si è peraltro formata) in cui il teatro nasce dalla musica e si snoda con naturalezza di recitazione.
Ecco dunque la scelta del Così fan tutte di Mozart per l’apertura del nuovo cartellone del magnifico San Carlo di Napoli, città natale e di studi cui Muti è sempre molto legato e ove Da Ponte ambientò per finzione la trama dello scambio di coppie: un’opera che Muti dirige dal 1982 – prima al Festival di Salisburgo poi alla Scala, a Vienna, a Ravenna – e con la quale Chiara è cresciuta, rimanendone affascinata fin dall’adolescenza, quando ne disegnava i personaggi. Dunque padre e figlia riversano ora queste esperienze nel comune progetto napoletano, secondo una lettura che è quella del disincanto e della disillusione professata da Don Alfonso: nessuno è immune dal tradire l’amato o l’amata, e con ciò occorre saper convivere. Prima di apprendere quest’amara lezione filosofica ed esistenziale, i giovani Guglielmo e Ferrando, Fiordiligi e Dorabella vivono nella spensieratezza della loro età, ridendo e scherzando: proprio così ce li mostra Chiara, con mano spigliata, passo da vera commedia e allusioni ai doppi sensi erotici del libretto, lasciando che la musica trasformi in gioco scenico le trame. Ma là dove l’introspezione si espande nella musica e la bacchetta di Riccardo diviene il pulsare e il respiro di tutto, la regia si fa metafisica, isolando i personaggi al proscenio in una sospensione spazio-temporale. E allora il quintetto dell’addio nel primo atto, con le trafitture armoniche di Mozart nell’intreccio di voci e strumenti, si fa momento vieppiù sublime, estasi dolorosa del congedo puramente in suoni.
A capo dell’orchestra napoletana sottoposta a lifting tecnico-timbrico, Muti crea tutto un mondo di delicatezze e sfumature che non sono solo di una grazia settecentesca, ma esprimono proprio quel disincanto a volte con un rarefarsi e un disfarsi del suono che svela quanto sta dietro le parole. “Un’aura amorosa”, la prima aria di Ferrando, sarebbe un momento di contemplazione serena intonata dal personaggio, ma nella prospettiva di quanto accadrà è un’illusione, che Muti trasmette nella chiusa orchestrale con un abbandono quasi nichilista. Gli riesce superando i limiti del tenore Pavel Kolgatin, cui una miglior tecnica eviterebbe un’emissione gracile, punto debole di una compagnia giovane ben plasmata, con il Guglielmo fresco di Alessio Arduini, le belle voci di Maria Bengtsson (una Fiordiligi che comunque fatica nel registro grave) e Paola Gardina (Dorabella), la spigliata Despina di Emmanuelle De Negri e, soprattutto, il Don Alfonso di Marco Filippo Romano, personaggio a tutto tondo della miglior tradizione mozartiana italica.
Tutti si muovono nei bei costumi in parte settecentizzanti di Alessandro Lai e nelle semplici scene grigioazzure di Leila Fteita, con pareti specchianti e anticate, il giardino in forma di labirinto per l’inseguimento amoroso e una simbolica giostra che è la giostra della vita: Chiara Muti vi ha aggiunto citazioni di spettacoli precedenti, dal Così fan tutte con la regia di Hampe che suo padre diresse e dal repertorio stilistico di Strehler, ad esempio le figure in controluce. Nella lettura di Chiara il disincanto finale mostra una condizione aperta, come se le coppie dei giovani non fossero più in grado di tornare allo stato iniziale ma dovessero continuare a vivere scambiate, Ferrando con Fiordiligi, Guglielmo con Dorabella: dopotutto lo suggerirebbe la musica, il tenore si armonizza con il soprano, il baritono con il mezzosoprano.
In scena a Napoli fino al 2 dicembre, questa produzione andrà all’Opera di Vienna nel 2020, ancora con Muti sul podio, e poi in Giappone.
Immagini Ph. Silvia Lelli