Vadym Kholodenko è uno dei più importanti pianisti del nostro tempo. La vittoria del Concorso Van Cliburn nel 2013 gli ha aperto le porte di una carriera internazionale, che il pianista ha saputo condurre con notevole equilibrio. Lo incontriamo all’Auditorium Paganini di Parma lo scorso 19 febbraio, prima dell’esecuzione del Concerto per pianoforte, tromba e orchestra di Šostakovič con Aziz Shokhakimov, Matteo Beschi e la Filarmonica Toscanini, di cui è artista in residenza.
Com’è iniziato il tuo percorso nella musica?
«Bisogna tornare molto indietro nel tempo, a Kiev. Ho cominciato in seconda elementare: è uno dei vantaggi della scuola russa vecchio stampo. L’idea fu di mia madre, ma mi innamorai della musica istantaneamente. Fin da subito ho avuto docenti bravissimi, che mi hanno portato fino all’incontro con Vera Gornostaeva, che sedeva in giuria in un concorso e che divenne poi mia insegnante a Mosca cambiandomi la vita. Grazie a lei la mia consapevolezza artistica e personale crebbe a dismisura. Vera non ha mai trattato gli alunni come “prodotti in serie”, per ognuno di noi cercava qualcosa di ritagliato sulle nostre abilità, spendeva moltissimo tempo con noi. Fu un viaggio musicale magnifico».
Poi, la grande stagione dei concorsi e la costruzione di una carriera.
«Sì, ho iniziato a dare concerti intorno ai 12-13 anni, anche con orchestra. Ricordo la mia primissima esibizione con il Finale del Primo Concerto di Beethoven. Non so bene cosa successe, ma ad un certo punto l’orchestra si fermò di colpo. In qualche modo sono sopravvissuto e sono arrivato vivo fino alla fine… ma che esperienza! Certo, per un bambino essere esposto in questo modo può essere un problema, eppure dal punto di vista dell’esperienza sul palco, beh, è impareggiabile. Come performer siamo destinati a vivere le nostre vite sul palco, a vivere comunicando con il pubblico. Stesso discorso per i concorsi, i cui vantaggi sono secondo me superiori rispetto agli svantaggi. L’intera industria musicale non risponde a criteri razionali e ogni opportunità di suonare in grandi sale, con orchestre importanti, conoscendo altri musicisti, è preziosa. Ovvio che sono impegnativi: a volte ci scherzo, ma il vero premio del Cliburn fu non dover fare più concorsi!».
Hai detto che come pianisti si è destinati a comunicare col pubblico, su un palco. Come fai ora?
«Con il primo lockdown ho capito che non potevo costringermi a studiare quando non sapevo se ci sarebbe stato un concerto. Potrà sembrare esagerato ma è stata una vera crisi esistenziale. Alla fine, con fatica, sono riuscito a recuperare una routine e a riprogrammare qualche concerto. Ma è stato ancora peggio per chi è agli inizi della propria carriera e per chi ancora aspira a farla. Mi ricordo bene cosa significhi essere al loro posto, la disperazione di quando non sai se ce la farai davvero».
Cosa credi debba fare un pianista ora?
«Dobbiamo capire cosa vogliamo fare e perché. Anche se l’arte è allo stremo, dobbiamo muoverci, dobbiamo suonare, dobbiamo mostrare davvero la nostra passione. Ci sono molte controversie sullo streaming e sul tema le opinioni sono parecchio polarizzate, ma per me è già un miracolo fare un concerto in qualche modo. Per i musicisti questo significa molto. Prendi la Toscanini, lo vedi ancora il fuoco nei loro occhi quando sono chiamati ad esibirsi. E questa è una ragione per andare avanti! Alla fine, so che sono parole scontate, ma senza arte la vita sarebbe ancora peggio. Quando ne usciremo dovremo essere pronti a suonare sempre, ovunque. Vera Gornostaeva, come Richter e molti altri, viaggiava in tutta la Russia, suonavano in ogni condizione, in vecchie scuole, in teatri di provincia, mettendoci sempre tutta la loro passione».
Hai menzionato la Toscanini: come si sviluppa il tuo percorso di artista in residenza qui a Parma?
«Prima abbiamo scelto con cura il repertorio, facendo attenzione agli incastri con i possibili direttori e repertori di cui sono più esperti, al contempo lavorando con concerti cameristici con l’orchestra. Durante le primissime prove cercavamo ancora di capire come trovare un terreno comune, ma sono ottimi musicisti: è stato semplice. Il rapporto con i direttori, poi, è importantissimo. Il maestro Onofri mi ha dato moltissimi consigli utili parlando dell’Imperatore di Beethoven. Un tipo di approfondimento che difficilmente avresti come ospite, in cui arrivi… prova… concerto… addio».
Andando più nel dettaglio su Šostakovič, cosa mi puoi dire di quella “strana creatura” che è il Concerto per pianoforte, tromba e orchestra d’archi?
«Non so se lo descriverei come “strano”! La prima volta che l’ho ascolto ero piccolissimo e subito ne fui affascinato, però capisco cosa intendi. È decisamente atipico se lo confronti, per esempio, con i Concerti di Prokof’ev. Ciò che mi affascina in Šostakovič è che non abbia scritto un grande concerto per pianoforte, cosa che ha fatto per il violino e per il violoncello. I due per pianoforte sono notevolissimi, ma il pianoforte è trattato come uno strumento all’interno dell’orchestra, rispondendo quasi alle dinamiche del concerto grosso. Non a caso nel Primo abbiamo due solisti! Poi è un brano che secondo me rappresenta al meglio il tempo in cui è stato scritto, la nascita dell’Unione Sovietica, le aspirazioni di un giovane compositore, ma soprattutto la voglia di voltare pagina. Šostakovič non è epigono di nessuno e in questo sta una grande differenza rispetto ai Concerti di Prokof’ev, soprattutto il Secondoe il Terzo che sono dei concertoni sul modello di Rachmaninov. Per me Šostakovič ha sempre saputo di avere un ruolo, un compito da svolgere. In questo mi ricorda molto la poesia di Majakovskij e penso che questa sua direzione, questa determinazione traspare anche da questo Concerto».
Alessandro Tommasi
In foto: Vadym Kholodenko lo scorso 19 febbraio con la Filarmonica Toscanini, impegnato nell’esecuzione del Concerto per pianoforte, tromba e orchestra d’archi n. 1 in do minore op. 35 di Šostakovič su un pianoforte grancoda modello F278 Fazioli (ph. © LucaPezzani)