Fabio Biondi nasce a Palermo in una famiglia dove la musica era il pane quotidiano: nonno e zio la bazzicavano, il padre la ascoltava prediligendo Gesualdo a cui erano riservate le domeniche mattina.
Violinista che si divide con il podio del direttore di orchestra, dopo una formazione internazionale nel momento in cui filologia e strumenti antichi erano un valore che andava riscoprendosi, fonda nel 1990 Europa Galante con l’obbiettivo di far tesoro dell’insegnamento di Oltralpe ma, al tempo stesso, di dare una lettura filtrata dal genius loci latino. Conosce un successo straordinario quanto inaspettato con l’incisione di Le quattro stagioni. Riporta nelle sale da concerto il repertorio virtuosistico di Tartini, Veracini, ecc… allora negletto.
Musicista intelligente, volentieri sconfina nel mondo dell’opera (tra i primi a lanciare un sasso nello stagno proponendo Verdi, Bellini, Donizetti suonati con strumenti antichi, suscitando un terremoto). Musicista curioso, non disdegna il repertorio lirico di ‘800-‘900. La sua stella polare è l’onestà intellettuale: la riscoperta del repertorio dimenticato è per lui quasi un dovere morale.
Viene da una famiglia musicale?
«Il nonno materno, avvocato, avrebbe voluto essere pianista. La famiglia non volle ma continuò a suonare. Conosceva a memoria le opere di Puccini al piano. Mio zio aveva studiato violino. Quindi c’era un violino in casa. Mio padre, medico, ascoltava sempre musica».
A 12 anni suona con i Giovani Cameristi Siciliani, a 16 al Musikverein. Enfant prodige?
«Non so. Quando cominciai, sentii subito che il violino era una parte imprescindibile della mia vita».
Com’è nato l’interesse per la musica antica?
«In Conservatorio, ascoltando la Passione secondo Matteo diretta da Harnoncourt: fui fulminato dal modo di suonare affatto differente da quello che studiavo. La scoperta non fu facile ma fu amore a prima vista».
I compositori preferiti?
«Mozart da sempre. Ora mi occupo di Romanticismo. Affiorano passioni giovanili: Schumann! Verdi, che da giovani intriga meno, ora mi infiamma. Soprattutto il Verdi giovanile. Il corsaro, l’ho amato».
Con strumenti antichi?
«A Valencia, dove ero direttore musicale, con strumenti moderni. Poi con Europa Galante. La letteratura romantica con la sonorità d’epoca come Macbeth dove la straordinaria forza è evocata dai colori impareggiabili dei fiati. Non mi si placa l’entusiasmo neanche con gli strumenti moderni! Potrei dire tantissimo a livello linguistico».
L’eredità del maestro Salvatore Cicero?
«L’impostazione tecnica che ancora utilizzo. Ebbe la capacità pacata ed intelligente di gestire il cavallo pazzo che ero da entusiasmare e indirizzare attentamente alla tecnica».
L’interpretazione è tecnica o sentimento?
«Non si può scindere. La tecnica formata sull’interpretazione è indispensabile. Oggi violinisti con capacità tecniche portentose non hanno coscienza del linguaggio, per un interprete un dovere, assente anche in violinisti ferrati. Apprezzo molto la continua ricerca in interpretazione e coscienza linguistica. Oggi mancano i riferimenti didattici. Pochi violinisti insegnano. Ho insegnato 11 anni in Conservatorio. È sbagliato riempire le classi per giustificare il corpo insegnante: manca la scrematura, ispettori che verificano la capacità didattica. C’è bisogno di una scuola di alto perfezionamento, Conservatori e scuole di musica: necessario un livellamento sulle capacità di insegnanti e allievi».
Sigiswald Keujken, altro maestro: cosa gli deve?
«Ha soddisfatto il mio interesse per la trattatistica. Mi consigliò: “Come violinista italiano devi fondare una scuola”. Fu tra i primi a smarcarsi dalla globalizzazione interpretativa».
La parabola di Europa Galante?
«Nacque su istanza di Jolanta Skura, fondatrice dell’etichetta Opus 111: “Le interesserebbe creare un ensemble? Vorrei una casa discografica che promuova il repertorio di musica antica, in primis italiana”. Da 30 anni l’orchestra condivide affetto e unione: percorso di straordinaria velocità nell’affermazione ma anche d’estrema umiltà e continua riscoperta: far sentire al pubblico che la musica è più importante degli interpreti in opposizione al giogo del marketing: ricordare che serviamo la musica, non la utilizziamo per metterci in valore».
L’attività pionieristica nella filologia di musicisti di seconda generazione come lei – dopo Christie, Harnoncourt, Brüggen – ha portato alla ridefinizione dei canoni interpretativi. Oggi qual è l’impegno: la riscoperta di un repertorio in sonno?
«La musica antica cominciava ad interessare. Abbiamo cercato le nostre radici capendo che eravamo latini: estroversi con senso del suono. Abbiamo formato un’inattesa scuola alternativa. Fu rivoluzionario. Percorso sincero che ha aperto inconsapevolmente una sorta di sclerotizzazione del pensiero che ha formato la generazione successiva che vede il mercato come terreno di conquista. Abbiamo dato il la alla degenerazione dove tutto è permesso. Non era nostro obiettivo, l’idea dell’interprete virtuoso. Il periodo ‘600-‘800 è caratterizzato da musicisti che spiccavano per l’unicità del modo di suonare, che crearono scuole. Nel 1975 quando iniziai, nessun violinista suonava il repertorio virtuoso (Tartini, Veracini, Locatelli…)».

Oggi c’è una spettacolarizzazione di questo repertorio, forse uno dei motivi del grandissimo successo oltralpe?
«Spettacolarità della musica mi piace perché è dentro un canone istrionico: tanta musica implica l’aspetto circense. Ma c’è un limite: il rispetto del verbo. L’interprete che mette il talento al servizio della musica e quello che la usa per far brillare il proprio talento. Approcci antitetici. Il secondo è diabolico!».
Farinelli è il secondo approccio…
«Certo. Ma allora gli interpreti erano anche autori o co-autori. Farinelli poteva permetterselo perché la musica era cucita sulla sua vocalità. Noi siamo interpreti».
Cosa pensa del fenomeno di contro-tenori e sopranisti?
«Non li amo molto. Tendo a non utilizzarli a parte alcuni scoop che feci con Virgin Classic. Ho grande rispetto per questi artisti soprattutto delle ultime generazioni, interpreti straordinari anche se qualcuno si è lasciato prendere da marketing ed immagine. Amo piuttosto le voci naturali. Mi fa ridere che sia più bello ascoltare un duetto d’amore cantato da controtenore e soprano che da due donne. È un paradosso. A Roma nel ’700 le scene erano interdette alle donne: gli uomini interpretavano ruoli femminili. Non è la giustificazione per amare queste voci».
Ha affermato: «Il massimo è sentirsi il compositore del pezzo che si suona».
«Non è l’obiettivo. Mi capita inconsapevolmente. Momento di grazia: suonando sei così vicino alla tua anima da sentirti nato con essa. L’idea utopica di suonare in maniera così globalizzante da ascoltare sé stessi: è come liberarsi dall’impeto interpretativo e dalla musica, ed ascoltarsi come seduti tra il pubblico. In quel momento ci si sente come si fosse il compositore.
Suona su strumenti antichi. Che importanza ha lo strumento?
«Relativa. Minima. Ho suonato su moltissimi strumenti, e mi sono sentito dire che era come se suonassi sempre sullo stesso. Si crede che lo strumento d’epoca legittimi la lettura della musica. Non è vero. Si rivendichi la pertinenza stilistica piuttosto che focalizzarsi sui mezzi che servono ad esprimere al meglio il messaggio!».
Preferisce l’opera o la musica strumentale?
«Forse sono più remunerato quando dirigo un’opera che è un atto globale: direzione, canto, orchestra, regia».
Il suo più grande successo?
«Il mio più grande… insuccesso! Nel 2001 Norma al Festival Verdi a Parma. Tra le prime volte che un gruppo italiano suonasse il repertorio romantico su strumenti originali. Cioè lettura attenta al linguaggio, alla trattatistica… Nonostante il gran polverone, è una delle cose che più mi inorgoglisce. In Polonia con Europa Galante abbiamo iniziato a incidere Stanisław Moniuszko, un contemporaneo di Chopin: le opere Halka e Flis. Alla prima di Halka, Penderwski mi disse: “Prima di uscire ero annoiato all’idea di sentire l’opera. Musica non particolarmente brillante. Uffa, ancora una volta Halka! Vabbè, è l’anniversario del compositore, vado! Le confesso che non avevo sentito mai è musica così bella”. La storia della musica è fatta di tantissimi generi, moltissimi li abbiamo dimenticati».
Epoca di pandemia. Che ne è della musica?
«Sono piovute cancellazioni da marzo scorso. Poi l’estate con le riaperture e gli streaming. Il festival “Chopin e la sua Europa” a Varsavia, per esempio, in agosto dove abbiamo suonato Hrabina (La Contessa) sempre di Moniuszco in forma di concerto e Mendelssohn (pezzi composti a 10 anni!). Tantissimi progetti tournée negli Stati Uniti, incisioni discografiche, concerti dappertutto ma tutti sotto la spada di Damocle della cancellazione. Ho esorcizzato lo stop come fosse un anno sabbatico. Lavorando tantissimo, scoprendo nuove cose, approfondendo cose che non avevo avuto tempo di studiare. Quindi tempo di evoluzione. Di rimeditazione».
L’attività discografica prosegue?
«Per la Vivaldi Edition della Naïve è uscita l’opera-pastiche Argippo. Poi Il corsaro (edizione dell’opera di Varsavia) e le Sonate e Partite di Bach. Me lo hanno chiesto tante volte, a quasi 60 anni è arrivato il momento».
E il “sogno nel cassetto”? C’è?
«Amo molto Gian Francesco Malipiero, messo da parte per ragioni storico-politiche. Mi piacerebbe farlo conoscere come contrapporre Orfeo di Gluck (l’edizione di Parma, meno lunga), dove il mito di Orfeo ha il lieto fine con la stessa scenografia cioè stesso regista a La favola di Orfeo di Casella che racconta il mito di Orfeo dilaniato dalle Furie. Raccontare come i miti cambiano nei secoli, e come cambia vederli. Ogni tanto un innamoramento folle per Fauré: vorrei tanto fare Penelope, opera meravigliosa che non si sente mai. Gli amori delle ingiustizie… C’è tanta musica meravigliosa nell’oscurità. Spero di poterla fare conoscere».
Ha un motto nella vita?
«Forza e onore».
Franco Soda