#Conversations Michele Mariotti: attendendo il debutto nell’Ernani al Festival Verdi

in News
  1. Home
  2. News
  3. #Conversations Michele Mariotti: attendendo il debutto nell’Ernani al Festival Verdi

Verdi e Rossini: le due anime di Michele Mariotti, fra i direttori italiani più acclamati nei teatri di tutto il mondo. Dopo il recentissimo successo della Aida in Piazza del Plebiscito a Napoli, lo abbiamo raggiunto telefonicamente per parlare del suo debutto nell’Ernani, in forma di concerto, al Parco Ducale di Parma per il Festival Verdi, alla guida della Filarmonica Arturo Toscanini e del Coro del Teatro Regio; una produzione che, nel mese di settembre, consacrerà anche il debutto di Piero Pretti ed Eleonora Buratto, rispettivamente nel ruolo di Ernani ed Elvira.

Maestro, a 28 anni ha iniziato il suo percorso verdiano, inaugurando la stagione del Comunale di Bologna con il Simon Boccanegra. In meno di tre lustri ha diretto quasi tutte le opere del grande compositore di Busseto: da La traviata parigina ai recenti Masnadieri in Scala. Quale elemento della musica di Verdi la appassiona maggiormente?

La cosa che mi ha sempre colpito delle opere verdiane è, innanzitutto, il ritmo teatrale, il taglio drammaturgico. E poi una umanità che è figlia di una enorme sensibilità. Verdi parla della violenza delle relazioni umane, all’interno e fuori di una stessa famiglia. Studiare Verdi significa per me operare un ripasso della vita. Il Simone ha rappresentato il mio debutto come Direttore principale a Bologna: inaugurai la Stagione nel 2007. Ho sempre apprezzato molto le opere giovanili di Verdi, evidenziando quanto belcanto sia in esse presente. La componente belcantistica, d’altronde, cosa significa: attenzione a una cifra, a un canto, agli accompagnamenti, ai colori. Ho interpretato queste opere senza snaturarne mai il linguaggio. Bisogna credere al cento per cento in ogni lavoro teatrale. Per questo non metto mai a confronto i melodrammi. A maggior ragione quando si tratta della produzione verdiana, nella quale ci si accorge chiaramente che esiste una costante maturazione, un costate aggiornamento, un costante sviluppo, una continua crescita. Negli anni, Verdi è diventato un cigno.

Lo stesso non vale, però, per un altro compositore a lei molto caro, il “cigno di Pesaro”.

Certo! Rossini non ha mai composto di pari passo con l’avanzare del tempo. Con Rossini la bussola era come impazzita. Se confrontiamo, ad esempio, il Sigismondo con l’Otello troviamo forse degli spunti melodici più belli, ma non troviamo differenze nel modo di scrivere, nessuna differenza nella forma né nella struttura. È come se in Rossini tutto fosse già “in incubatrice” agli inizi della carriera: il medesimo gene che si è sviluppato nel futuro.

Due decenni prima che Verdi debuttasse a La Fenice di Venezia con Ernani (marzo 1844) Rossini, nello stesso teatro, si congedava dalle scene italiane con quel sontuoso sacrario del belcanto che è Semiramide (febbraio 1823). In quale misura esiste un rapporto fra i due compositori?

Credo che la musica sia un flusso universale. Possiamo distinguere chiaramente i collegamenti fra gli autori. Soprattutto nel primo Verdi è nettissima la presenza di Rossini. Penso ai pezzi chiusi, in cui una enorme lente di ingrandimento, calando sul personaggio, è come se fermasse il tempo. È bello riflettere sul fatto che Verdi sia in realtà il trionfo di certi principi rossiniani, come la variazione. Un tempo variare significava farcire di note una linea melodica. Con Verdi, invece, non vengono aggiunte note, ma a cambiare è il carattere, il senso, il modo: creando situazioni intriganti, insinuanti, spesso con l’impiego del sottovoce. Verdi in un certo senso ha raccolto l’eredità di Rossini, così come anni dopo Puccini raccoglierà quella del Falstaff. Esiste una fusione che coinvolge tutti i linguaggi dei compositori.

Il 25 settembre debutterà nell’Ernani, in forma di concerto, per il Festival Verdi di Parma: un’opera che, come affermò Eugenio Montale nel 1959, «scolpisce i personaggi con la musica anche quando la loro psicologia resta il presupposto di uno statico “carattere”».

Sono molto contento di dirigere Ernani a Parma. Credo nella bellezza di ogni opera di Verdi. Per me Ernani è eleganza, cura dello stile. «Scolpire i personaggi con la musica» significa riservare attenzione alla parola, alle pause, alla pronuncia, al segno, al colore, ai dettagli. Soprattutto, è necessario non perdere mai di vista il cantante, in particolare nelle cadenze.

Cosa comporta essere aderenti alla lezione verdiana?

Rispettare la partitura. Che poi, se vogliamo, è ciò che dà molta più libertà a un interprete: direttore, musicista o cantante che sia. Più si hanno dei paletti, più la fantasia ha modo di spaziare.

…in un certo senso, il principio della contrainte.

Quando ero studente di composizione, ricordo che nel momento in cui mi si dava la possibilità di fare tutto quello che volevo non riuscivo neppure a mettere giù la matita. Questa è la dimostrazione che quando ci si impone dei limiti solo allora maturano le potenzialità e si inizia a delineare un cammino.

In questo periodo lei è stato uno dei grandi protagonisti della ripartenza del mondo dello spettacolo dal vivo, inaugurando la rassegna L’estate del Bibiena al Comunale di Bologna lo scorso 25 e 26 giugno.

Tornare sul podio, dopo mesi di interruzione delle attività musicali, è stato davvero molto emozionante. In particolare, era la terza volta che affrontavo la Quinta sinfonia di Beethoven. Ritengo sia fondamentale confrontarsi più volte con i grandi capolavori del passato. Il mondo cambia e noi, inevitabilmente, cambiamo insieme a lui. Ogni volta, quindi, l’interpretazione è diversa, più consapevole. Essere attinenti alla partitura, d’opera o sinfonica che sia, non significa forse capirne profondamente il significato, cogliere appieno il senso che il compositore volle conferirgli?

Grande successo ha riscosso l’Aida in Piazza del Plebiscito a Napoli con Anna Pirozzi, Jonas Kaufmann e Anita Rachvelishvili – recite 28 e 31 luglio. Qual è la sua personale lettura di quest’opera?

Aida inizia e finisce in pianissimo, in sottovoce. È sostanzialmente un dramma da camera. Il lato trionfalistico è solo un momento, un rapido squarcio michelangiolesco, uno specchio che serve a riflettere e amplificare le differenze, religiose e sociali. Poi l’opera – straordinaria – viaggia su altri livelli, decisamente più intimistici.

Graham Vick e Michele Mariotti durante la produzione de La bohème al Teatro Comunale di Bologna (photo © Studio Amati-Bacciardi).

Una riflessione sulla collaborazione fra direttori d’orchestra e registi nel panorama lirico contemporaneo.  

Esiste una co-responsabilità fra direttore e regista: in teatro queste due figure devono dialogare. Negli ultimi anni viene usata troppo spesso, e in maniera del tutto inappropriata, l’espressione “regia moderna”. Moderni possono essere i set, le scenografie, ma molte volte sottesi da una regia classicissima e tradizionalissima. Quello che è realmente moderno è il lavoro che un regista fa con i cantanti, in sinergia con il direttore. Penso a La bohème bolognese del 2018. Durante la produzione, io e Graham Vick ogni giorno ci scambiavamo opinioni, idee. Alla fine, abbiamo presentato al pubblico non la solita storia d’amore fin de siècle ma una storia sulla paura di amare. Senza inventarci relazioni strane, che non ci sono – quelle sono facili scorciatoie che alcuni imboccano unicamente per far parlare di sé. Il successo dello spettacolo, gratificato poi dal Premio Abbiati, è stato il risultato di una perfetta unione d’intenti. La “modernità” che la critica e il pubblico vi ha riscontrato risiede unicamente in una attenta interpretazione, non nell’aver cambiato arbitrariamente le cose. Ecco, ancora una volta ci può venire in soccorso Verdi quando affermava: «Torniamo all’antico e sarà un progresso».

Progetti imminenti?

Tantissimi concerti sinfonici in agenda, ausiliari agli impegni lirici. Prima del debutto nell’Ernani a Parma, gli appuntamenti a Milano e Torino per la nuova edizione di MITO SettembreMusica, nel segno di Mozart e Gluck, in cui dirigerò l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai.

 

Attilio Cantore

 

 

Le Contaminazioni Liriche dell’Opera Giocosa di Savona
Festival delle Nazioni di Città di Castello: alla Russia con amore

Potrebbe interessarti anche

Menu