#Conversations Michele dall’Ongaro: all’Accademia di Santa Cecilia la stagione è partita (e prosegue) con coraggio, sobrietà e intensità

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Seppur in questo periodo di grandi incertezze, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha deciso di annunciare integralmente la sua stagione 2020/21 e di inaugurarla il 16 ottobre scorso aprendo con tre grandi serate dedicati a due capolavori sinfonici: il Te Deum di Anton Bruckner e il Lied von der Erde di Gustav Mahler.

Abbiamo incontrato a Roma il Presidente-Sovrintendente dell’Accademia Michele dall’Ongaro all’indomani del concerto inaugurale e prima del secondo appuntamento in calendario che domani giovedì 22, venerdì 23 e sabato 24 vede l’atteso incontro tra Antonio Pappano e Stefano Bollani nel segno di Mozart, per riflettere sul perché, proprio ora, sia importante continuare a far musica e pensare al futuro.

 Come iniziare questa intervista se non parlando del bellissimo concerto cui abbiamo appena assistito…

«Questo concerto ci ha convinto che abbiamo fatto bene a insistere. Molti ci hanno scoraggiato, perché chi ce lo faceva fare di annunciare una stagione, aprire gli abbonamenti e fare l’inaugurazione. Invece abbiamo lavorato come pazzi a questa serata, anche per consentire al pubblico di venire in sicurezza. Hai visto come sono rispettate le regole, io stesso mi son trasformato in un presidente-sbirro! Ma trovarsi poi ad ascoltare questa musica ci ha ricordato il motivo per qui siamo qui: questo è un presidio di civiltà, in cui le persone vengono per trovare ciò di cui hanno bisogno, ossia condividere intelligenza, emozione, bellezza, etica, una visione del mondo. E finché ci sono dei finanziamenti pubblici, questi presidi devono rimanere aperti, salvo ovviamente disposizioni per la tutela della salute. Questo non è stato un programma casuale: il concerto di oggi ha affiancato due visioni non poi così dissimili, una di grande spiritualità religiosa, ma l’altra non meno metafisica, legata ad una visione più laica, quasi animista. Ma si tratta di due lati della stessa medaglia, la necessità di trascendenza che in questo momento è sentita da tutti. Certo, a volte è difficile metterla a fuoco, non siamo aiutati in questo tipo di meditazione, fermi come siamo a contare i morti, ad attendere i vaccini…».

Siamo infatti concentrati sul controllare mascherine, contare centimetri, fare previsioni di posti disponibili, ma è ancora possibile pensare a un progetto culturale, in questo momento?

«Certo che è possibile! Noi che abbiamo studiato composizione lo sappiamo, le regole sono importanti. Contrappunto doppio, fuga… quando provi un contrappunto a otto parti ti sembra impossibile, non puoi fare quasi niente. Ma è quel “quasi” il tuo spazio di manovra, in cui puoi, rispettando le regole, dar spazio alla fantasia e all’invenzione. Anzi, più le regole sono rigorose, più la creatività è messa alla prova e dà i suoi frutti migliori».

Dice che è per questo che tanti compositori iniziano con successo una carriera di organizzatori musicali?

«Quello è anche il bisogno di rimanere con i piedi per terra, perché i musicisti, l’abbiamo notato anche con questa esperienza, se non tengono i piedi per terra tendono naturalmente a isolarsi dal mondo. Dico “naturalmente” perché se vuoi suonare bene uno strumento, su quel palco, otto ore al giorno le devi passare a studiare. E tutto questo concentrarsi su se stessi a volte isola dal mondo. Invece il confronto con i problemi dell’organizzazione, con le esigenze dei sindacati, del pubblico e così via tengono fortemente unite e connesse le due cose: da un lato la forza della musica nella sua essenza più astratta e dall’altro le condizioni che servono per realizzarla, che invece sono molto concrete. Ma la musica è un fatto concreto. I violinisti hanno i calli sul collo, i pianisti i polpastrelli schiacciati, i trombonisti il braccio sinistro che dopo un po’ vorrebbero buttarlo, i cantanti non ne parliamo! È un costante contatto con il corpo e la musica ti insegna a pensare con il corpo».

Parlando di esigenze concrete, quest’inaugurazione ha segnato ufficialmente il ritorno in Sala Santa Cecilia del pubblico, dopo i primi concerti di settembre.

«Esatto. Bisogna sempre ricordarsi che tutto questo è fatto per qualcuno, non ha senso far musica se non c’è qualcuno che ci ascolta. E bisogna avere il massimo rispetto per il nostro pubblico. Ad esempio, eravamo inizialmente convinti di dover fare la versione di Schönberg del Lied di Mahler, con pochi strumenti, poi ci siamo messi lì, con il Maestro Pappano e i nostri tecnici, abbiamo iniziato a misurare e abbiamo visto che ci entravamo. Magari non con gli archi al gran completo, ma grazie al grande palco e alla grande sala, anche con lo spazio per il coro, ce la potevamo fare. E a questa inaugurazione ne segue subito una seconda, in cui abbiamo invece scelto di evocare l’aspetto sorridente e gioioso della musica, con Stefano Bollani e il Concerto per pianoforte K 488 di Mozart, Pulcinella di Stravinskije  il Concerto per quattro violini di Vivaldi… Abbiamo voglia di giocare con la musica e di comunicare al pubblico questo gioco, questo divertimento».

Quella che avete costruito è un po’ una stagione in tempore belli: cosa ci resterà da questa situazione?

«Cent’anni fa eravamo nella stessa situazione, forse peggio. Anzi senz’altro peggio: la spagnola ha fatto molte più vittime e uscivamo dalla Prima Guerra Mondiale. Eppure, i concerti si sono svolti finché hanno potuto, la musica non è mancata e anzi è stata stimolo a compositori come Stravinskij per pensare nuove forme di spettacolo. L’Histoire du Soldat nasce così, anche se poi Stravinskij è stato bloccato proprio dalla spagnola. Quindi penso che anche questa situazione orrenda possa servire a qualcosa. Intanto a conquistare una nuova sobrietà, a togliere di mezzo gli orpelli che anche in questo mestiere sono presenti: meno soldi, meno fuffa, meno profumi e balocchi e più ricerca del significato profondo del far musica, ossia creare una coesione sociale intorno a una forma di telepatia, la musica, grazie ai grandi geni del passato e ai talenti di oggi, che vanno sostenuti e anzi sollecitati a darci una risposta. Perché la musica non solo interpreta le cose, ma le modifica, come ci insegna Beethoven. Per quello abbiamo fatto l’integrale delle Sinfonie, non solo per rispettare i calendari, ma anche perché nel segno di Beethoven impariamo due cose: che c’è sempre una soluzione e il coraggio. Il coraggio di un uomo che a un certo punto è diventato sordo ma, come diceva Berio e io spesso ripeto, “è diventato sordo solo al superfluo”. È stato grazie a questa sua sordità che ha trovato dentro di sé dei suoni inediti, che hanno poi illuminato le generazioni successive. Se questa persona, da sola, è stata in grado di darci tutto ciò, forse anche noi uno sforzo possiamo farlo».

Alessandro Tommasi

 

 

 

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