#Conversations Enrico Onofri a Parma: il mio “presente remoto” alla guida della Filarmonica Toscanini

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La Filarmonica Toscanini ha un nuovo “direttore principale”. Si tratta di Enrico Onofri, violinista fra i più rimarchevoli del nostro panorama, uomo di raffinata sensibilità cresciuto in rapporto simbiotico con l’arte – nella galleria antiquaria dei suoi genitori – ha puntato sempre allo studio, alla custodia e alla diffusione dei tesori musicali, dal barocco alla contemporaneità. Già Direttore ospite principale della Haydn Philharmonie e della Orquesta Barroca de Sevilla, direttore musicale della Academia Montis Regalis, direttore in residence della Bochumer Symphoniker, è inoltre fondatore e direttore dell’Imaginarium Ensemble (la cui recente incisione vivaldiana, Into Nature, è stato disco del mese «Amadeus» nel febbraio 2020) e docente di violino barocco, dal 1999, presso il Conservatorio “Scarlatti” di Palermo. Vincitore nel 2019 del Premio “Franco Abbiati” come miglior solista dell’anno, il musicista ravennate riceve adesso il prestigioso incarico di direttore principale della celebre Filarmonica parmigiana, ricoperto precedentemente da Alpesh Chauhan. Lo abbiamo intervistato per avere anticipazioni sulla programmazione della nuova stagione autunnale di concerti (la n. 45), alla luce del suo personalissimo credo estetico.

Qual è la sua visione per il futuro della Filarmonica Toscanini?

«Un’orchestra in grado di affrontare un ampio repertorio in modo flessibile, in cui ogni musicista possa vivere a più dimensioni la partitura, attraverso un gesto strumentale di tipo cameristico, coinvolgente, che oggi è a mio avviso imprescindibile anche per i vasti organici. Più in generale vedo l’orchestra, quale ne sia la dimensione o il repertorio da affrontare, come un riverberarsi di molteplici gruppi da camera che colloquiano tra di loro. Un gioco di specchi di cui il direttore fa parte, inter pares, seppur chiamato alla solitaria responsabilità delle scelte interpretative».

Gli impaginati messi a punto accoglieranno solo i capolavori dei “giganti” del repertorio sinfonico o verrà illuminato anche il repertorio di compositori “minori”, in un’ottica di riscoperta e valorizzazione di un patrimonio musicale misconosciuto?

«È più che altro mia intenzione proporre accanto ai grandi capolavori alcune composizioni poco frequentate nelle sale italiane, il cui apporto in termini storici aprì la strada ai “giganti” per le loro creazioni. Auspico comunque che vi sia spazio per riportare ala luce anche opere che giacciono ingiustamente nella polvere, un percorso già battuto con successo negli anni passati con l’Orquesta Barroca de Sevilla attraverso una serie di incisioni dedicate agli sconfinati archivi delle cattedrali andaluse: sono certo che quelli parmigiani offrano altrettante delizie».

Quanto influisce la sua profonda conoscenza della musica e della prassi esecutiva barocca sul suo personale approccio direttoriale?

«Le prassi esecutive storiche in realtà riguardano un campo assai più vasto di quello del barocco, che arriva fino al Novecento: il mio cammino d’interprete mi ha portato in tal senso a esplorare negli anni il repertorio dal primo Seicento fino a Bartók, sia sul podio sia al violino. Esecuzioni ispirate alle pratiche storiche, inoltre, sono da decenni la norma per molte orchestre sinfoniche d’oltralpe. Il mio approccio direttoriale si fonda dunque sulle prassi precipue dei vari tipi di repertorio affrontato, sia con le orchestre sinfoniche, sia con quelle su strumenti storici. Tuttavia, sono convinto che il marchio HIP (historical informed performance) sia oramai logoro, standardizzato e perciò in parte lontano dall’originario spirito di ricerca che lo caratterizzava. Ciò è ancora più evidente quando si tenta tale percorso con strumenti moderni: a volte si riduce a uno scimmiottamento di standard HIP che sono solo possibili decodificazioni soggettive delle fonti storiche. Oggi è perciò imprescindibile confrontarsi con tali fonti, con rigore, ma occorre ricordare che la musica è prima di tutto un’arte viva e richiede processi ben più complessi di una semplice applicazione (comunque e sempre soggettiva) di regole. Propongo dunque di cambiare il senso dell’acronimo HIP in “historical inspired performance”. Resta in ogni caso un’arma a doppio taglio: la tentazione di ricercare nelle antiche prassi solo ciò che giustifica i nostri capricci d’interprete è sempre in agguato, un facile approccio che col tempo delude per primo il musicista stesso».

T.S. Eliot sosteneva che «abbiamo bisogno di un occhio capace di vedere il passato al suo posto con le sue definite differenze dal presente e tuttavia così vivo che esso sia presente a noi come il presente». Come definirebbe il proprio rapporto con il passato?

«Faccio eco a Eliot con le parole del neurologo Oliver Sacks: “Molti scienziati, non meno che poeti e artisti, hanno un rapporto vivo col passato: non solo un senso astratto della storia e della tradizione, ma anche la sensazione di avere compagni e predecessori – antenati con i quali intrattengono una sorta di dialogo implicito”. Sono cresciuto in una bottega antiquaria, circondato da oggetti d’arte che mi parlavano del passato e di chi li aveva creati, e forse a questo debbo la mia dedizione alle prassi esecutive storiche. Sono tuttavia cosciente del mio essere moderno, qui e ora, e del ruolo a cui oggi è chiamato un interprete: occuparmi del patrimonio musicale ereditato dai nostri avi mi fornisce il tempo in cui coniugare la mia vita, quello del “presente remoto”».

C’è un momento cruciale che ogni artista vive, spiegava Victor Vasarely: «sa transmutation “d’être récepteur” en “être émetteur”: là, il devient créateur», scoprendo finalmente il suo ruolo «qui consiste à donner». Nel nostro caso, è la musica a diventare un dono, maggiormente prezioso soprattutto in questi tempi sempre in bilico fra mille incertezze.

«La musica, come il teatro e la danza, è un’arte che si manifesta unicamente attraverso lo scorrere del tempo, e nel momento in cui la percepiamo già non esiste più, se non nella nostra labile e soggettiva memoria: è un’arte che insegna ad amare la fragilità, l’impermanenza e la grazia che da esse scaturisce. Il momento irripetibile di un’esecuzione dal vivo è certamente un dono prezioso al contempo per l’interprete e per il pubblico».

Inaugurerà la sua nuova esperienza di Direttore Principale della Toscanini nel mese di ottobre. Poi, il 30 e 31 ottobre, presenterà un programma beethoveniano, accostando la Settima Sinfonia al Concerto “Imperatore”.

«Un omaggio a Beethoven, in questo sfortunato anno che ha visto cancellare così tanti eventi a lui dedicati, nel duecentocinquantesimo anniversario della nascita. Il debutto in veste di direttore principale avverrà la settimana precedente, in tre concerti di ringraziamento per i generosi spettatori che durante l’emergenza Covid decisero di rinunciare ai rimborsi per gli spettacoli annullati. Una toccante iniziativa che vedrà l’esecuzione di musiche di Bach, Haydn e Mozart sul filo rosso della danza, il tema che caratterizza la stagione 2020-21 della Filarmonica Toscanini».

Nel 1770 una «gremita costellazione nel cielo dell’Europa» sorse luminosa: Hölderlin, Hegel e Beethoven divennero ben presto «portatori di una convinzione assoluta sulla preminenza della propria attività sulle altre», come affermò Giorgio Vigolo. Quali sono gli aspetti – artistici e umani – che la appassionano maggiormente del grande compositore di Bonn?

«Al di là dello stupore che genera il valore innovativo della sua opera – incredibile la trasformazione della scrittura, che nel corso di una breve vita porta i linguaggi neoclassici alle lontane galassie dell’Op.132 o della Nona Sinfonia – credo che qualunque musicista e ascoltatore sia toccato dall’antitetica commistione di disagio e gioia che scaturisce prepotente dalle sue partiture. Uno stato d’animo ravvisabile nell’opera di tanti artisti durante i secoli, che in Beethoven però si esprime con un sapore e una forza assai vicini alla moderna sensibilità. Più personalmente, oltre alla profondità con cui tocca le mie corde, la sua musica è in grado di stimolare sinestesie inaspettate: dirigere Beethoven ha dischiuso paesaggi che hanno cambiato sottilmente la mia percezione dell’orchestra dal podio e perfino il mio approccio generale alla musica. Consiglio inoltre ai musicisti che non lo avessero mai fatto di dare un’occhiata ai manoscritti del compositore: si troveranno di fronte a veri e propri capolavori di grafica, fotografie di un processo creativo prodigioso».

Info: fondazionetoscanini.it

 

Attilio Cantore

 

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