Nella stagione del Teatro dell’Opera di Roma c’è qualche spazio per l’opera contemporanea. Tappa finale del progetto “Fabbrica” (progetto di inserimento professionale per giovani artisti iniziato due anni fa) è stato un dittico tutto al femminile, lavori di due giovani compositrici che si sono cimentate con lo stimolante e difficile mondo del teatro musicale: On-Off di Sara Caneva (nata nel 1991) e She di Maria Kallionpää (nata nel 1981), entrambi su libretto di Stefano Simone Pintor, messe in scena al Teatro Nazionale.
«Opera di immaginazione», She si ispirava all’omonimo romanzo dell’inglese Henry Rider Haggard del 1887 (Lei o La donna eterna, romanzo d’avventura che ha dato spunto anche a numerose versioni cinematografiche). Nei suoi tre quadri, l’opera alternava tre vicende diverse ambientate in tre epoche distinte: nel primo (ai nostri giorni, a Roma) il professore Geoffrey Truce teneva una conferenza sul romanzo She; nel secondo (in Africa nel IV sec. a.C.) a una coppia naufragata sulle coste dell’Africa, il vate greco Kallikrates e a sua moglie, la principessa egiziana Amenartas, appariva in una luce abbagliante la dea Ayesha, nota anche come «Lei-cui-bisogna-ubbidire», che si innamorava di Kallikrates e poi lo uccideva solamente toccandolo; nel terzo (ancora in Africa ma ai tempi del romanzo) la misteriosa divinità riappariva a Leo Vincey e alla moglie Ustane, reincarnazione della coppia precedente, seduceva l’uomo e poi si gettava con lui tra le fiamme.
La compositrice finlandese (che ha studiato a Oxford, Vienna e Jyväskylä) e il librettista hanno letto questa storia come una sorta di indagine, sempre attuale, sui concetti di razza, di evoluzione, di sessualità, su alcune regole morali della società occidentale: «È un’opera sull’ossessione dell’uomo per il possesso – dice la Kallionpää – per il dominio dell’altro, ma riflette anche il pericoloso complesso di superiorità che da sempre ha l’Occidente nei confronti del resto del mondo». Peccato che il libretto, lungo e verboso, e la musica, piena di cliché, non siano riusciti ingranare in un efficace organismo drammatico. Emergeva nella partitura lo sforzo di creare un’atmosfera arcaica e misticheggiante, ma con materiali e procedimenti piuttosto prevedibili, strutture modali, accordi pesanti, quinte parallele, brevi pattern reiterati, effetti percussivi, concertati ieratici, armonici usati per creare atmosfere misteriose, e una linea di canto dal lirismo espressionista, soprattutto nella parte di Ayesha affidata alla brava Erika Beretti.
Più interessante l’operina di Sara Caneva, musicista giovanissima, con studi a Milano, Roma, Stoccarda, ma anche in Austria, in Russia e in Ungheria, premi e commissioni internazionali, un curriculum da enfant prodige. Prendendo spunto da un’esperienza personale, ha concepito un lavoro originale, incentrato su una comunità di anziani con problemi di udito, con un libretto frammentario, un «non-libretto» fatto di brandelli di parole. Questa «riflessione uditiva in tre scene» raccontava le vicende di Clea all’interno di una struttura per anziani affetti da malattie dell’udito, la «Casa di Risuono», creata dal prof. Fraud, furbo imbonitore e inventore di fasulli apparecchi per l’udito. Clea riusciva a fare nuove amicizie, usando la sordità per astrarsi dal mondo e allontanarne le negatività, a immergersi in un universo interiore fatto di musica e di poesia, a trovare un canale di comunicazione con il sordomuto e solitario Eustachio.
Tutta la parte musicale, molto sofisticata, sembrava alludere alle difficoltà di ascolto di questi personaggi, riprodurre il mondo interiore di quella piccola comunità: l’ensemble iniziava a suonare in maniera frammentata dal fondo della sala, e solo dopo entrava nella buca, un gruppo di musicisti suonava sul palcoscenico, la trama strumentale era piena di sibili, rumori, effetti di risonanza, giochi onomatopeici, sfruttava varie percussioni, tra le quali il flexatone, una pentola con biglia, una pallina sonora, e numerosi otamatones (strumento giocattolo giapponese, che ha la forma di una grande croma con una faccia sulla testa della nota), il pianoforte era preparato con un’asticella di acciaio e patafix su diverse corde, tutta l’opera era punteggiata da concertati ritmati, citazioni stilistiche, innesti registrati di voci bianche e attori.
Nella parte vocale emergevano alcune belle intuizioni, come le tirate di Fraud che parlava agli ospiti dell’ospedale con grande enfasi, ma senza essere sentito, con una studiata alternanza di parole e break strumentali. I pensieri più poetici di quei pazienti erano resi con grandi bolle liriche, ampie arcate cantabili di Clea (ottima Valentina Varriale) e dell’amica Ondina (ancora interpretata da Erika Beretti), con un accompagnamento quasi sinfonico, solo lievemente distorto: pagine che dimostravano una mano sicura, ma che erano la parte più debole dell’insieme. Sara Caneva si è comunque dimostrata una compositrice di talento, con un ottimo istinto teatrale, da tenere d’occhio, anche considerando la giovanissima età. Attiva anche come direttore d’orchestra (è già salita sul podio di diverse orchestre internazionali, ha recentemente diretto L’Elisir d’amore di Donizetti al Teatro Mancinelli, ha fondato un proprio ensemble di musica contemporanea, il Formanti Ensemble), la Caneva ha anche diretto le due opere, alla guida della Youth Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma.
Entrambe le opere erano affidate alla regia di Luca Bargagna (con le scene di Giada Abiendi, i costumi Chicca Ruocco, luci di Marco Alba), con due ambientazioni completamente differenti. Un mondo misterioso, avventuroso, anche un po’ onirico per She, con una regia statica, fatta di pose ieratiche, accenni di danze tribali, presenze mostruose, scene immerse in una luce giallastra che apparivano come per magia dietro un grande arco proiettato su un velatino e che poi scomparivano come inghiottite dal buio.
Una lettura più realistica era quella di On-Off, con una caratterizzazione dei personaggi quasi da opera buffa, e anche qualche eccesso caricaturale: Clea incontrava i suoi anziani compagni di sventura su un prato verdeggiante, con due serre illuminata da luci al neon (una strapiena di oggetti, l’altra di strumenti musicali) e un fondale che cambiava continuamente colore, circondata da un continuo viavai di biciclette, giardinieri, servitori che si muovevano come automi, pazienti su sedie a rotelle.