Viennale: cinema espressionista in salsa electropop

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Com’è nella sua tradizione, la Viennale 2017 ha proposto una rassegna di lungometraggi, cortometraggi e documentari d’autore: nel programma spiccano due classici del muto austriaco fra le due guerre, come Orlacs Hände (1924) e Der Rosenkavalier (1926), restaurati dal Filmarchiv Austria e proposti nella storica sala del Metro Kino, nel cuore di Vienna.

E, com’è di moda, si è pensato di corredare le proiezioni di un accompagnamento dal vivo realizzato in sala e affidato a strumenti elettroacustici ed elettronici. All’opposto di quanto un malinteso senso di “autenticità” potrebbe far credere, il connubio di questi due elementi – la pellicola muta e il suono elettronico – ha una profondissima ragion d’essere. Nel 1929, nel pieno della drammatica transizione al sonoro, il compositore tedesco Walter Gronostay immaginava ampie possibilità d’impiego cinematografico di sonorità concrete e sperimentali: a suo dire, ciò avrebbe assecondato la vocazione realistica del cinema, riscattandolo dalla inverosimile unione con il melos musicale, per sua natura astratto ed eccessivamente stilizzato.

L’osservazione di Gronostay derivava da una lucida comprensione del linguaggio cinematografico, delle sue convenzioni e delle sue leggi drammaturgiche. Questa sensibilità non può che essere il solo, autentico principio estetico alla luce del quale valutare la fondatezza o meno di una musica per film, quale che sia di volta in volta la sua materia acustica, dal sinfonismo tardoromantico al live electronics, dalla Salonmusik alla canzone pop.

È proprio questa sensibilità che è mancata invece del tutto alle realizzazioni musicali sopra menzionate. Per tacere della trasposizione filmica della commedia in musica di Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal, per la quale si pone il problema del confronto con un originale quanto mai ingombrante, si vedano le musiche di Raumschiff Engelmayr (nome d’arte del DJ Manfred Engelmayr) per Orlacs Hände. Il lungometraggio – un film d’orrore tardoespressionista nella tradizione del Gabinetto del Dr. Caligari, con cui ha in comune il regista, Robert Wiene, e l’attore protagonista, Conrad Veidt – è stato suddiviso musicalmente in una decina di “numeri”: vastissime superfici sonore pressoché monocolori che si estendono nel tempo per minuti e minuti (al punto da rendere la fruizione del film un’esperienza estenuante) e si succedono l’una all’altra secondo una logica impermeabile alla narrazione filmica e al suo respiro drammaturgico.

 

 

Ma non è tutto. Queste interminabili campiture sonore, virtualmente intercambiabili e adattabili a qualsivoglia situazione narrativa (di questo film come di qualsiasi altro) constano per di più di una materia musicale impossibile a conciliarsi: qui il rumorismo elettronico più esasperato, lì un ingenuo pattern ritmico anni Ottanta; qui una distorsione in stile heavy metal, lì un giro armonico di La minore dalla disarmante banalità.

Nell’era della post-modernità è divenuto difficile come non mai distinguere il nuovo dal “vecchio travestito da nuovo”. Nel ricorso al più sofisticato dei sistemi elettronici in appoggio a una chitarra elettrica che suona con le corde vuote si annida una fatale contraddizione, che rischia di falsare la dialettica fra tradizione e modernità – proprio quella dialettica che vorrebbe ispirare questa ormai sessantennale mostra internazionale d’arte cinematografica.

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