Incontrarsi per caso e trovare una sintonia profonda: è quanto è successo a Luca Colardo e Sandra Conte. Il violoncellista e la pianista presentano il loro nuovo disco: una selezione di Chopin e Debussy

Si sono incontrati quasi per caso, hanno trovato una profonda sintonia e non si sono più lasciati; il violoncellista Luca Colardo e la pianista Sandra Conte condividono una visione della musica che li ha portati a intrecciare uno stretto legame artistico che si è poi ulteriormente consolidato nella vita privata. Al loro attivo vantano affermazioni presso importanti Concorsi internazionali e concerti in location prestigiose, dalla Sala Verdi del Conservatorio di Milano alla Carnegie Hall di New York.
I lettori di Amadeus li ricordano come protagonisti di un album in download nel 2015; tre anni dopo sono stati “promossi” al cd di copertina, in cui presentano l’integrale delle opere per violoncello e pianoforte di Chopin e di Debussy, per fare un nuovo bilancio della loro carriera, tra risultati ottenuti e prospettive future.
Che cosa significa “fare musica da camera” oggi?
Sandra Conte «A me viene in mente una barzelletta: “Come si fa a diventare milionari con la musica da camera? Semplice, basta essere miliardari!”».
Luca Colardo «Tralasciando l’aspetto economico, la musica da camera è fra le attività musicali che danno maggior soddisfazione. Rispetto a un’orchestra o a un ensemble con direttore, il valore aggiunto delle formazioni cameristiche è poter raggiungere una sintesi musicale che è frutto di diversi contributi, anche se inizialmente contrastanti. A volte questa sintesi si trova proprio durante l’esecuzione in pubblico; accade anche quando, paradossalmente, non si era giunti a una visione comune sul piano teorico».
Come vi siete incontrati e cosa vi ha spinto a suonare insieme?
S.C. «Frequentavo la classe di composizione di Sonia Bo, mamma di Luca. Un giorno mi ha chiesto se potevo accompagnare il figlio per un’audizione. Ho accettato, ma in realtà non pensavo che avrebbe avuto un seguito, data anche la differenza di età».
L.C. «Invece poi ci siamo trovati bene e non solo musicalmente…».
S.C. «Dopo mesi di corteggiamento assiduo (con le scuse più assurde per fare prove tutti i giorni) ho capitolato. Dopo otto anni di fidanzamento ci siamo sposati quest’anno ad aprile».
Cosa vi sta insegnando l’esperienza di questo Duo?
S.C. «Che la cosa più importante per poter costruire qualcosa insieme è la comunicazione. Vale per la coppia e in ogni tipo di relazione: bisogna ascoltarsi e non avere timore di esprimere la propria opinione».

Qual è il valore aggiunto che porta alle vostre esperienze solistiche o cameristiche?
S.C. «Sicuramente senza l’esperienza del duo stabile suonerei in maniera diversa. Non avrei affinato così tanto l’orecchio, non capirei tutte le problematiche che gli strumentisti ad arco devono affrontare e le possibilità interpretative a loro disposizione. Cercare di fondersi col suono del violoncello ti costringe a trovare nuove soluzioni sul piano, che poi possono essere utilizzate anche nel repertorio solistico».
L.C. «Per un violoncellista i lavori in duo col pianoforte rappresentano circa la metà dell’intero repertorio. Inoltre anche i concerti per violoncello e orchestra necessitano della collaborazione di un pianista, cosa non valida viceversa…».
S.C. «Quindi quello che vuoi dire è che il valore aggiunto è avere un pianista sempre a disposizione per accompagnarti senza dovertelo cercare».
L.C. «Ma no, intendevo dire che il duo è una parte imprescindibile della preparazione e dell’attività solistico-concertistica. Ogni violoncellista vorrebbe avere un duo stabile col pianoforte».
Quali altre attività impegnano il vostro percorso musicale?
S.C. «Quella di docente. Insieme a quella didattica, l’attività concertistica mi ha costretto ad affrontare la mia ansia e a cercare soluzioni per superare questo problema. Dopo anni di ricerca e sperimentazione ho affinato delle tecniche per gestire la paura in maniera positiva e tengo corsi indirizzati a tutti gli strumentisti che vogliano approfondire l’argomento. Sono anche compositrice e sono nel direttivo della Simc – Società italiana di musica contemporanea – che porta avanti progetti di divulgazione della nuova musica e di collaborazione fra compositori ed esecutori».
L.C. «Io sono invece membro e fondatore del quartetto d’archi Siegfried assieme ad Alessandro Savinetti, mio fratello Andrea Colardo e Francesco Scarpetti. Quest’anno abbiamo partecipato, tra l’altro, al progetto “Casa del Quartetto” di Reggio Emilia. Sono molto attivo nell’ambito della musica contemporanea: ho partecipato alla realizzazione di molte prime esecuzioni e ho avuto anche il privilegio di poter suonare con l’Ensemble Intercontemporain».
Come lavorate su un nuovo programma? Come lo scegliete e come lo preparate?
S.C. «A volte capita di dover preparare un programma ad hoc per eseguirlo dal vivo, altre si è liberi di scegliere cosa studiare. Io sono sempre alla ricerca del metodo di studio ideale: abbozzare tutto il pezzo in duo e poi lavorare sui dettagli? Concentrarsi prima sui propri passaggi tecnici e provare insieme solo in un secondo tempo? Studiare prima sulla partitura senza suonare? Sono arrivata alla conclusione che ogni metodo funziona se c’è entusiasmo e pazienza. Ma funziona ancora meglio quando hai l’acqua alla gola!».
Su quale repertorio vi piace concentrarvi e quali sono i vostri autori preferiti?
L.C. «A me piace approfondire il repertorio che va dall’ultimo Beethoven fino ai giorni nostri, soffermandomi in particolare sui lavori del periodo romantico e tardo-romantico ma anche sulle opere del ’900 storico».
S.C. «Io invece prediligo gli autori classici, ma adoro anche Brahms».
Quali sono i vostri progetti futuri?
S.C. «Sicuramente scrivere qualcosa di nuovo, magari per il Quartetto Siegfried. Per quanto riguarda il duo ci piacerebbe poter eseguire l’integrale delle Sonate di Beethoven».
Con quali criteri avete invece scelto il programma di questo cd?
L.C. «Abbiamo pensato a un progetto che potesse risultare appetibile per un vasto pubblico, ma che al tempo stesso presentasse lavori poco frequentati o addirittura quasi sconosciuti. Le Sonate di Chopin e Debussy sono da tempo entrate nel grande repertorio e ne esistono diverse incisioni; la stessa cosa non può dirsi per il Grand Duo di Chopin o per il giovanile Nocturne et Scherzo di Debussy. Inoltre lo stile di quest’ultimo deve molto al mondo chopiniano. La loro intera produzione per violoncello e pianoforte si poteva racchiudere in un unico disco creando così un programma organico».
Cosa vi aspettavate e cosa avete scoperto in queste partiture?
S.C. «Personalmente mi aspettavo che la Sonata di Chopin presentasse una scrittura pianistica simile a quella presente nelle principali composizioni per pianoforte, come Studi, Sonate, Concerti o Ballate. Invece, soprattutto per quanto riguarda primo e ultimo movimento, mi sono trovata di fronte a uno Chopin completamente diverso: una scrittura densa, polifonica, armonicamente complessa che anticipa Skrjabin, Franck e persino Rachmaninov!».
L.C. «Questa complessità dipende sicuramente dalla travagliata gestazione della Sonata e dal fatto che Chopin non fosse mai completamente soddisfatto del primo movimento, tanto da volerlo addirittura eliminare, come decise di fare nella sua ultima apparizione pubblica parigina in cui eseguì la Sonata partendo dallo Scherzo».
S.C. «Un’altra scoperta è stato il Nocturne et Scherzo di Debussy. Apparentemente leggero e disimpegnato in un’atmosfera Belle Époque, si può invece interpretare come una prima ricerca di quelle sonorità vaporose ed evocative che saranno la cifra del suo stile maturo».
di Andrea Milanesi