Riflessioni sull’opera del grande compositore Claude Debussy a 100 anni dalla scomparsa. L’occasione è l’ascolto de La Soirée dans Grenade

Cento anni fa, il 25 marzo 1918, a Parigi, per un cancro al colon, moriva Claude Debussy. Accadeva mentre, da tredici giorni, dalla foresta di Coucy, a 120 chilometri di distanza, i tedeschi bombardavano la capitale francese con dei cannoni a lunga gittata denominati Parisgeschütz; la situazione militare francese era considerata da molti critica. Il maestro, nato a Saint-Germain-en-Laye il 22 agosto 1862, non aveva ancora compiuto 56 anni. Era la fine di un’epoca. Ma a quel tempo, che percezione aveva di Debussy il mondo della musica?
Debussy, come lo vedevano negli anni Venti
Sfilo un volume da uno scaffale della libreria: L’opera pianistica di Claudio Debussy, scritto dal compositore e pianista Luigi Perrachio, pubblicato a Milano nel 1924 – solo sei anni dopo la scomparsa del maestro; rileggo alcuni passi a suo tempo sottolineati.
«Pochi creatori hanno veduto come lui convergere sulla loro opera l’attenzione dei contemporanei. Sia per essere discussa e spesso anche maltrattata e vilipesa (…) Debussy non è passato fra l’indifferenza generale (…) Debussy non è più un mistero per noi, oggi. Non è però neanche il superato o il sorpassato che taluno o qualche scuola vorrebbero far credere. (…) il gusto oggi è orientato da un’altra parte, si concepisce in un’altra maniera, si vuole un mondo diverso.
Ma questo non autorizza ancora a considerare come finita o inutile una creazione che ha un profondo valore estetico, una non meno profonda radice umana, ed una solida logica costruttiva. Debussy non è un superato o un sorpassato. (…) Debussy è appena oggi – a mio parere – in tal posizione che si possa cominciare a guardarlo con serenità. A giudicarlo con giustizia, a sentirlo con coscienza».
Un compositore impressionista?
Il primo ad accostare Debussy all’Impressionismo, con intenti tutt’altro che elogiativi, fu il segretario dell’Accademia di Francia di Villa Medici, a Roma, il quale, a proposito della Suite Printemps (1887), pur riconoscendo il genio e l’originalità compositiva del venticinquenne, notò in lui «un senso del colore musicale la cui esagerazione gli fa facilmente dimenticare l’importanza della precisione del disegno e della forma», mettendolo in guardia da «questo vago impressionismo che è uno dei più pericolosi nemici della verità nelle opere d’arte».
Due anni dopo, a questo commento si aggiunse quello del critico Jean d’Udine. A riguardo dei Nocturnes, scrisse «Non si saprebbe immaginare sinfonia più sottilmente impressionista».
È noto che Debussy rifiutò sempre qualsiasi accostamento della sua musica al movimento pittorico nato alla fine del 1873, capeggiato da Camille Pissarro, che trovò in Claude Monet la sua figura di spicco. Nel 1908, a proposito delle sue Images per orchestra, scrisse all’editore Jacques Durand: «Cerco di fare “altro” – diciamo delle realtà – che gli imbecilli chiamano “impressionismo”, un termine che viene usato del tutto a sproposito».
Debussy fu impressionista o simbolista, o quant’altro ancora? La domanda è sostanzialmente capziosa. Lui osservava tutto, ma si muoveva al di là di ogni classificazione.
Qualcosa d’altro
Ferme restando le forti relazioni che avvicinano i lavori di Debussy alle altre discipline visive e letterarie del suo tempo – ripristinare e studiare questi contatti è sempre utile, di qualsiasi età si tratti – la soluzione al quesito è lì, nelle parole stesse del maestro «Cerco di fare altro». Ma qual era “l’altro” a cui si riferiva Debussy?
Proviamo a individuarlo per via diretta, attraverso un raro documento che del musicista ci è pervenuto. Togliamo il cellophane a un cofanetto discografico recentemente pubblicato da Warner – Debussy. Ses premiers interprètes – e ascoltiamo la registrazione de La Soirée dans Grenade (da le Estampes del 1903) realizzata dallo stesso maestro nel 1913. Esecuzione splendida e rivelatrice.
Musica per sensazioni
Come poche altre opere, le tre Estampes sono l’apogeo, della ricerca di Debussy sul colore e sulla ricchezza sonora del pianoforte. Si propongono come tre evocazioni magiche, capaci di far viaggiare l’ascoltatore nel tempo e nello spazio, in luoghi in realtà del tutto idealizzati: a Bali con Pagodes, in Andalusia con La Soirée dans Grenade e a Parigi con Jardin sous la pluie.
Se nel Romanticismo si esprimevano sentimenti, qui ora si tratta di sensazioni. Il pianoforte di Debussy è uno strumento multiforme, capace di cambiare condizione e stato fisico, di farsi terra, fuoco, aria e acqua. È un mezzo straordinario per evocare qualsiasi effetto naturalistico; per suggerire e alludere a idee, o a schegge di memoria.
Il linguaggio che esprime è costituito da incisi brevi, vari, di differenti dimensioni, dissimili spesso gli uni dagli altri. Eppure riuniti in un flusso continuo, apparentemente libero, ma dalla conseguenza perfetta. Questo scaturisce da quello, quello sostiene quell’altro, e quell’altro lumeggia il seguente, che a sua volta spiega e giustifica il precedente. Ecco perché Debussy era così interessato alle opere di François Couperin.

La Soirée dans Grenade è un pezzo che al suo interno presenta tanti contrasti sgorgati da suggestioni a cui l’autore si abbevera. Eppure, nell’esecuzione di Debussy sembrano quasi azzerarsi. Pur nella loro diversità, si concatenano appunto uno all’altro con estrema consequenzialità; senza fratture, senza sottolineature, senza tipizzazioni.
Sensibilità à la Chopin
Nulla è folclorico, Tutto è indefinito, vaporoso, vago, possibile di differenti immaginazioni. Nulla è catalogabile. Tutto è impalpabile e nasce da una sensazione intima che si traduce in un suono meraviglioso che, compatibilmente con i valori di una ripresa d’epoca, sembra prendere le distanze dagli eccessi e dai crescendo. Anche i momenti più esplosivi sono tenuti sotto controllo: Debussy gli accenna soltanto. Tutto è indistinto. Nulla appare prestabilito. Tutto, alla fine, è sogno e mistero.
Si sente che la sua prima insegnante di pianoforte, Madame Mautet de Sivry, suocera di Verlaine, era stata allieva di Chopin. Lo si percepisce nella sensibilità del tocco, nel rapporto che il polpastrello instaura con l’avorio del tasto. È la sensibilità nata con Chopin che Debussy porta ad estreme e lontane conseguenze.
Debussy secondo Viñes
Proseguiamo con l’ascolto, passiamo al track 4, dove lo stesso brano è interpretato da Ricardo Viñes (registrazione del 1929). Sono trascorsi solo 13 anni, e la poetica di Debussy è già stata fraintesa; tutto è più veloce, tutto è più incisivo e definito. Soprattutto, l’immaginazione è pilotata, e l’ascoltatore con è più, in tal senso, coautore.
Con Viñes siamo tornati a un’estetica romantica: al prestabilito. Pensiamo, invece, altro esempio, ai 24 Préludes per pianoforte: dove Debussy colloca i titoli dei brani alla fine della partitura, tra parentesi e preceduti da puntini di sospensione: quasi per invitare l’ascoltatore a proseguire con un personale viaggio della fantasia.
Debussy fu considerato un innovatore per la sua tecnica e per il suo stile. Ma la novità vera era racchiusa nel suo pensiero, nella sua sensibilità, nella sua capacità di cogliere l’indefinito e l’impreciso: un mondo fluttuante, non esclusivamente musicale, che non aveva bisogno di tradursi in una forma chiusa per essere percepito. Il compositore lo espresse con concetti e forme sonore, infondendogli il mistero arcano di una leggenda e di una favola.
Tempo alla concentrazione
Oggi, a cento anni dalla scomparsa del compositore, agli zombi che si attivano solo se “svegliati” dal richiamo di un twitter, la musica di Debussy lancia, chiaro, un insegnamento: l’autosufficienza dei nostri sensi e l’importanza di concedere tempo alla concentrazione. E con essa alla contemplazione di quanto fluttua nell’aria: le immagini, i suoni, gli odori, i sapori – tutte cose che spesso è impossibile stringere in una mano – e di viverne la loro bellezza e il loro mistero.
Difficile dire da dove giunse questa sua predisposizione. Forse essere cresciuto in una famiglia di commercianti di porcellane lo aiutò fin da bambino a muoversi con cautela, ad osservare, a stare attento a quanto lo circondava, a godere con i sensi della bellezza; ad avere cura di ciò che è prezioso, e a portargli rispetto.
Un artista controcorrente
Nel turgido mondo musicate tardo romantico, nutrito da dichiarazioni spesso urlate, Debussy si pose con anima nuda e semplice; con delicatezza, senza urtare, senza guastare, come se si trovasse in un negozio di porcellane.
Mentre il Verismo italiano, e non solo quello, buttava in faccia all’ascoltatore le sue emozioni, imponendogliele con tutta la forza straziante delle voci e di grandi impasti strumentali – si pensi solo a Cavalleria rusticana (1890) di Pietro Mascagni o a Pagliacci (1892) di Ruggero Leoncavallo (1892) – con Pelléas et Mélisande (1902) Debussy propose al pubblico un teatro musicale articolato in momenti emozionali isolati, costituito da atmosfere più che da vicende, percorso da un declamato melodico sostenuto da un’orchestra d’inusitata ricchezza timbrica ma che cercava la giustapposizione di colori puri.
Un melodramma in cui dominavano silenzi carichi di significato, che erano allusione all’inesprimibile. Verso il finale dell’opera, uno dei personaggi, il vecchio Arkel, afferma «Bisogna parlare a voce bassa. L’anima umana è silenziosissima».
Debussy sta dicendo un’altra cosa ancora all’ascoltatore: se ci sei con tutto te stesso, e vuoi ascoltare, sarai dentro a questa storia. Se sei laggiù, in ultima fila, e stai dormendo, io non ti disturberò. Non t’imporrò nulla perché «l’anima altrui è una foresta oscura, dove bisogna camminare con precauzione».
Massimo Rolando Zegna